Il dado è tratto, Silvio Berlusconi ha deciso di ricandidarsi nel 2013 alla guida del governo. Pare che abbia passato le ultime settimane a studiare sondaggi e simulazioni di risultati elettorali e che la combinazione con le maggiori possibilità di avere successo (o quantomeno di non sprofondare) sia la ridiscesa in campo del quattro volte premier – che l’anno prossimo compirà 77 anni – affiancato da una squadra di «giovani». Virgolette d’obbligo perché gli scudieri prescelti dal Cavaliere avrebbero tra i 40 e i 50 anni, e qualcosa in più.

Paradossalmente il più giovane della compagnia, cioè il segretario del Pdl Angelino Alfano, è quello più penalizzato dal colpo di reni berlusconiano che sancisce ufficialmente la mancanza del «quid» tra le caratteristiche dell’ex guardasigilli. Alfano non attizza, non prende, non suscita quello che – secondo i sondaggi – Berlusconi sarebbe ancora in grado di mobilitare. Il segretario si è subito messo in riga, ha dichiarato che sarà a fianco del leader in questa rinnovata avventura (per Silvio sarebbe la sesta campagna elettorale per le politiche). Ma ormai il suo destino è segnato: non più delfino ma eterno secondo. Un destino che potrebbe tarpare le ali anche ad altri «giovani» del Pdl. Infatti, l’altro paradosso di questa scelta è che i consensi maggiori vengono dai «vecchi», dai nostalgici del «Berlusconi del ‘94», da chi invoca un ritorno alle origini, una sorta di salto all’indietro di vent’anni come se nulla fosse accaduto nel frattempo.

Al di là delle aspirazioni dei «berluscones», la vera domanda riguarda comunque l’efficacia della scelta del Cavaliere. Molto dipenderà da come finiranno le trattative sulla legge elettorale, se cioè falliranno (e si andrà ancora a votare con il «Porcellum») o modificheranno il sistema di voto. Qualcuno ha già osservato che il ritorno al proporzionale e alle preferenze penalizzerebbe le ambizioni di Berlusconi; e così pure il permanere delle divisioni all’interno del partito. Pare comunque tramontata l’ipotesi di formare liste e listerelle civiche per rastrellare il consenso disperso.

Altra pesante incognita è la linea stessa del Pdl, o come si chiamerà, visto che i Berlu-entusiasti già profetizzano nuovi nomi, nuovi simboli, nuove strategie. La linea politica riguarda il giudizio sull’esecutivo Monti, su cui persiste un’ambivalenza pericolosa. Monti ha fatto bene o male? I sacrifici sono utili per il Paese o inutilmente vessatori? Il prossimo governo dovrà continuare ancora nella dolorosa strada del rigore o farà tirare il fiato agli italiani? E l’Europa, va considerata una matrigna o un’opportunità?

Su tutto questo Berlusconi tace. La sua strategia, per ora, appare un maquillage, un «make up» a un partito vecchio e boccheggiante. Si parla soltanto di leadership e alchimie elettorali senza dare ancora indicazioni agli elettori su quali basi sceglieranno. Lo staff che affianca il Cavaliere è convinto che possa ancora funzionare il vecchio schema del «marchio Berlusconi», un contenitore da riempire al momento opportuno con un programma di vago stampo liberale.

Ma questa «mossa del cavallo» potrebbe in realtà nascondere un obiettivo più recondito. E cioè quello non di vincere le elezioni, ma semplicemente di non perderle, di conquistare una posizione di rendita, una percentuale determinante per qualunque futura opzione di governo. Un gioco di ostruzione contro l’asse Pd-Udc, ammesso che vi si giunga. Mantenere un potere di veto, una specie di catenaccio difensivo. Quel gioco che Berlusconi non ha mai voluto che il suo Milan praticasse e che ora, ridotto all’angolo, forse è l’unico che gli resta.