Nessuno ne parla, nemmeno malvolentieri, tranne due «guastatori» dei rispettivi schieramenti. Due personaggi scomodi ma dotati di un certo peso all’interno dei loro partiti. Sono Stefano Fassina e Renato Brunetta, responsabili dei problemi economici nel Pd e nel Pdl. Il tema è di quelli proibiti in campagna elettorale che, viceversa, potrebbe affacciarsi subito dopo il voto. Si tratta di un ipotetico accordo tra i due partiti maggiori.
Per non disperdere i sacrifici fatti, come ha ripetuto anche ieri a Bergamo il senatore a vita Mario Monti, non esiste l’unica possibilità di votare lo stesso premier uscente. Esiste un’alternativa: sostenere o il Pd o il Pdl nella prospettiva che si mettano d’accordo per governare assieme. Non un esecutivo tecnico, come quello degli ultimi 14 mesi, ma politico. Un governo non di emergenza ma di unità nazionale.
Fassina e Brunetta ne hanno parlato sulla Stampa di ieri. Molto lontani sulle ricette per la crescita dell’economia e dell’occupazione, i due sono invece piuttosto vicini nel valutare i rapporti con i partner europei. Bankitalia ha lanciato un allarme sui conti pubblici, che evidentemente non sono stati messi sufficientemente in sicurezza dalle tecno-stangate. In un’economia depressa, al calo del Pil si somma la crescita delle spese sociali come quelle per la cassa integrazione. Il buco che si credeva chiuso si riapre da un’altra parte.
Si parla di una manovra primaverile da almeno 7 miliardi di euro. Una mungitura impopolare e forse impossibile, visto che il Paese è già stremato. Ma probabilmente inevitabile, se si dovesse sottostare alla lettera degli impegni presi con l’Europa. Soltanto un governo forte, con salda base parlamentare, frutto delle urne e non di situazioni d’emergenza, avrebbe il potere di spiegare all’Europa che certi impegni sono irrealistici e che la politica economica dell’eurozona va corretta.
Questo è il ragionamento di Fassina e Brunetta. È chiaro che non parlano i leader dei partiti. Ma la saldatura avrebbe qualche ragione. Il Pd-Sel è alla ricerca di una strategia d’uscita dall’impasse in cui si troverebbe qualora non ottenesse la maggioranza al Senato (diamo per acquisita quella alla Camera): l’alternativa a un’alleanza post-elettorale sarebbero altre elezioni dopo l’estate, come in Grecia. A sua volta, l’alleanza avrebbe due sponde. Quella con Monti, infatti, che secondo molti osservatori sarebbe cosa già fatta, non è la strada obbligata.
Bersani potrebbe esplorare la via dell’intesa con Berlusconi. Il quale ha già detto che sulle grandi riforme per rinnovare il Paese è disposto a lavorare con il Pd. E la difesa degli interessi italiani in Europa potrebbe rientrare a buon diritto tra le possibilità di collaborazione.
Sarebbe una «grande coalizione» sul modello del primo governo Merkel tra popolari e socialisti, guidata dal leader del partito che ha preso più voti nelle urne, cioè − verosimilmente − Bersani. Il secondo partito, cioè il Pdl, potrebbe indicare per il Quirinale un nome che garantisca entrambi. Ed ecco un governo senza Monti, senza i centristi e senza massimalismi, capace di battere i pugni sui tavoli di Bruxelles.
Fantapolitica? Impossibile trovare conferme di questo disegno. Ma il fatto stesso che due strettissimi collaboratori dei leader non lo escludono significa che esso appartiene alle ipotesi del secondo tipo (possibilità) e non del terzo: cioè irrealtà.