Era l’autunno 2007, sei anni fa di questi giorni. La travagliata legislatura del secondo governo Prodi si sarebbe chiusa di lì a pochi mesi. A sinistra avevano intuito che la coalizione di 11 partiti a sostegno del Professore non sarebbe durata a lungo e, chiudendo una lunga fase preparatoria, stavano per partorire il Partito democratico. L’unione tra Ds e Margherita, la fusione tra i resti dei cosiddetti cattolici democratici della Dc e gli eredi meno massimalisti del Pci: Rosi Bindi e Massimo D’Alema, per capirci. Walter Veltroni stava per diventarne il primo segretario. Una rivoluzione politica e generazionale insieme.
Silvio Berlusconi, all’opposizione, meditava come rispondere a un’operazione che – sulla carta – si presentava bene. La sinistra mostrava di mettere da parte spaccature storiche e recenti, di «semplificare il quadro politico»: così si diceva allora. Di 11 partiti e partitini che facevano bella mostra di tutte le possibili divisioni interne, se ne voleva creare uno forte, capace di affrontare la prova del “porcellum” alla prima occasione utile. Un modello vincente, almeno in teoria. E il Cavaliere si pose all’inseguimento.
Autunno 2007, per essere precisi il 18 novembre. Al termine di una manifestazione in piazza San Babila, Berlusconi salì sul predellino della sua auto blu e lanciò il Pdl. Una fusione dei partiti di centrodestra, Forza Italia e Alleanza nazionale più altre realtà minori. Un blocco da contrapporre al nascente Pd. Una decisione presa senza consultare Gianfranco Fini, che si trovò davanti al fatto compiuto. Una mossa che, di fatto, pose le basi per la futura scissione del Fli: o Fini si adeguava o avrebbe perso ogni speranza di leadership. Il Pdl vide formalmente la luce nel 2009, Fini sbatté la porta l’anno dopo. E nel 2011, complici la crisi e un’infilata di errori di governo, il ghiribizzo del predellino sarebbe diventato un boomerang per la coalizione che aveva conquistato la maggioranza parlamentare più ampia della storia repubblicana.
Acqua passata? Macché: lo schema si ripete oggi. La legislatura è in bilico. Il Pd prepara una svolta interna, come nel 2007 politica e generazionale. Il rampante Matteo Renzi, leader annunciato, farà di tutto per accelerare la crisi e piazzare le terga su tre poltrone: sindaco di Firenze, capo del partito, capo del governo (poi si vedrà a che cosa rinunciare, se sarà proprio necessario). La legge elettorale, ora come nel 2007, a parole fa schifo a tutti, ma nei fatti resterà perché fa troppo comodo a ogni capo-partito scrivere di suo pugno le liste elettorali e conquistare il 55 per cento dei seggi parlamentari avendo soltanto il 30-35 per cento dei voti.
E Berlusconi? Di nuovo si mette a inseguire l’operazione imbastita a sinistra. Cambia ancora partito: dal Pdl si torna a Forza Italia. Sceglie come data di lancio lo stesso 8 dicembre in cui il Pd insedierà il nuovo segretario. Affila le armi in vista di una campagna elettorale per le politiche non ancora certa ma assai probabile, e comunque un appuntamento elettorale è sicuro: le europee. E soprattutto pone le basi per un’ulteriore scissione: non più gli ex missini di An ma i moderati di Angelino Alfano.
Siccome la storia non si ripete mai uguale, esistono anche grandi differenze tra 2007 e 2013. I guai giudiziari toglieranno di mezzo il Cavaliere che medita di farsi sostituire dalla figlia Marina. E poi, allora vigeva un sostanziale bipolarismo in cui al blocco Pdl-Lega si contrapponeva l’alleanza Pd-Rifondazione, mentre oggi c’è un terzo polo, il Movimento 5 Stelle. Forzare verso le elezioni, come Renzi e Berlusconi si accingono a fare, potrebbe essere un azzardo pagato caro. E nel riproporsi di una situazione ingovernabile non si potrà più ripetere lo schema bruciato delle larghe intese.
Ma tant’è. Resta che Berlusconi, persa la creatività e l’imprevedibile capacità innovativa, ripercorre strade già viste. Che però, questa volta, sembrano destinate a non portargli più la fortuna del passato.