La collaborazione che Enrico Letta e Matteo Renzi si sono promessi non più di 15 giorni fa, quando a Milano è stato insediato il nuovo segretario del Partito democratico, ha più le sembianze di un braccio di ferro. Dalla vittoria alle primarie, non è passato giorno senza una spallata di Renzi al governo. Lavoro, immigrazione, riforme, rimpasto, rilegittimazione di Silvio Berlusconi.

Adesso che l’esecutivo attraversa il momento di maggiore difficoltà, dal Rottamatore non arrivano stampelle (come ci si attenderebbe da chi rivendica con forza e orgoglio di essere l’azionista di maggioranza del governo) ma altre bordate.Sul pasticcio della legge di stabilità e del decreto Salvaroma, indigeribile perfino per il vero azionista numero 1 del governo, cioè Giorgio Napolitano, Renzi ha intavolato un confronto molto duro.

Essendo il pilastro dell’esecutivo, è sul Pd che ricadono le accuse per la gestione disinvolta degli emendamenti alla legge di stabilità e per il Salvaroma. Ma Renzi non vuole finire nel tritacarne mediatico, non intende essere mescolato con l’attendismo di Letta stile prima repubblica. Per il segretario parla uno degli uomini nuovi della segreteria, Davide Faraone, neo responsabile del welfare, che l’altro giorno aveva criticato la pubblicità data dal ministro Kyenge alla visita ai rifugiati del Centro Astalli nel giorno di Natale. «Non basta un ritocco, un “rimpasto”: o si cambia radicalmente o “si muore”», ha detto Faraone rivestendo i panni di Giuseppe Garibaldi a Calatafimi. E poi ha aggiunto: «Così non va. Eletto Renzi si azzera il contagiri e si riparte. Mentre noi lavoriamo a un’agenda di grandi riforme, c’è chi brucia tutto».

Il nervosismo è diffuso anche tra i montiani di Scelta civica, che chiedono una rappresentanza nel governo. Ma è proprio quel «non basta» di Faraone che mostra i limiti di Renzi, già emersi quando sfidò Beppe Grillo sul finanziamento ai partiti ricevendone in cambio una pernacchia (eufemismo). «Non basta» significa che il rimpasto è necessario, anche se non sufficiente. 

Questo è il terreno di scontro con Letta, che teme due conseguenze: la prima sono le critiche delle opposizioni e soprattutto dei movimenti anti-politica, per i quali tutto si ridurrebbe a una faccenda di poltrone che porterebbe altro discredito sul governo; la seconda è il rischio che toccando anche solo poche pedine il domino dell’esecutivo possa cadere, implodendo su di sé. La rampogna di Napolitano sull’abuso della decretazione d’urgenza ha indebolito moltissimo Letta, e ogni piccolo movimento potrebbe trasformarsi in un terremoto.

Il premier preferisce spostare il confronto sul programma, sulle cose da fare e sui tempi di realizzazione, come ha detto nel discorso della fiducia e alla conferenza stampa di fine anno. Quindi, riforma elettorale e piano del lavoro. E a proposito di lavoro, potrebbe trovarsi qui un punto di sintesi tra nuovi programmi e nuova squadra, perché l’attuale ministro «tecnico» Enrico Giovannini potrebbe lasciare il posto a Pietro Ichino, passato da consigliere economico di Renzi a parlamentare di Scelta civica.

Ma c’è un altro motivo per cui Letta resiste a Renzi. Ed è il tentativo di arginarne l’avanzata. Qualche giorno fa un sondaggio ha rivelato che il nuovo segretario pd convince l’elettorato di sinistra; ora secondo altre rilevazioni il fascino rottamatore si starebbe allargando anche nel campo dei centristi e del nuovo centrodestra, dove Alfano non riesce a «dire qualcosa di centrodestra».

Ciò significa che a Renzi converrebbe andare a votare quanto prima, e anche a Berlusconi, sia pure per motivi opposti: allontanare il sindaco di Firenze dal proprio campo. Per Letta, l’unico modo di frenare Renzi è restare a Palazzo Chigi. Magari riducendo il numero di decreti legge.