L’ultima domenica di carnevale doveva segnare l’inizio della «fase tre» nella campagna elettorale di Mario Monti. La prima, secondo gli strateghi del Professore, doveva rappresentare il passaggio da tecnico imprestato alla politica a politico a pieno titolo. La seconda doveva consolidare l’immagine di protagonista della campagna elettorale, con la difesa del suo operato di premier, i riconoscimenti dei colleghi europei e anche l’incrociar di lame con Bersani ma soprattutto Berlusconi e Vendola-Cgil. La fase tre avrebbe consacrato Monti come politico di livello superiore, una spanna sopra gli altri, lontano da quello che Silvio Berlusconi chiama «il teatrino della politica» e capace di dare speranze senza limitarsi a fare promesse.

Questo, alla vigilia, era l’auspicio degli «spin doctor» montiani raccontato dai giornali più vicini all’ex numero uno della Bocconi. È finita con il Professore impantanato nelle polemiche di giornata: dopo le lamentele per essere stato «insultato e aggredito» come mai gli era capitato, Monti ha affibbiato dell’«infantile» a Pierluigi Bersani (il quale aveva catalogato come «vittoria di Pirro» il modesto aumento di fondi per l’Italia nel nuovo bilancio europeo) e del corruttore a Berlusconi («compra voti con i soldi degli italiani»). A Bersani ha perfino strappato il vezzo dei paragoni zoofili: se il segretario Pd vuole «smacchiare il giaguaro Berlusconi», Monti intende «rendere trasparenti i camaleonti».

Considerato l’abituale aplomb, quello di ieri è un vero salto di qualità nel linguaggio del premier dimissionario. È come se il Professore avesse deposto il gessetto per la lavagna impugnando un randello. Al quale Berlusconi ha ribattuto colpo su colpo, in una aspra gara a chi picchia più pesante. Ieri sera, a In onda, il Cavaliere ha sfoderato un personalissimo galateo delle buone maniere bollando come «cazzate» i timori dei leader europei (riportati da Monti) sul suo eventuale ritorno a Palazzo Chigi. E ha liquidato come «indecente» considerare il rimborso Imu al pari di voto di scambio.

Dietro questo incattivirsi dello scontro si nascondono diversi fattori. La spiegazione più immediata, cioè un crescente nervosismo, è anche la più improbabile: i cambi di rotta sono sempre dettati da esigenze precise più che da cedimenti caratteriali. Mario Monti sente la necessità di allontanare ulteriormente da sé l’immagine del bocconiano tutto libri e teorie economiche. Le foto con il cane, il salotto con i nipoti, ora i colpi di scimitarra servono per comunicare un’immagine nuova, assieme di normalità e combattività. Ma Monti avverte anche l’urgenza di tenere il proscenio, di non farsi rubare spazio dai concorrenti, soprattutto dalla proverbiale abilità di Berlusconi nel capovolgere a proprio vantaggio i rovesci più imprevisti. 

Monti deve dimostrare di essere lui a dettare i temi dell’agenda e di restare al centro dello scontro tra gli opposti destra-sinistra. Deve dissipare le ombre di un inciucio, cioè che l’accordo con Bersani sia già fatto. «Di alleanze per ora mi rifiuto di parlare», ha detto ieri, facendo intendere che se ne potrà discutere dopo il 25 febbraio.

I toni urlati, anche nel campo berlusconiano, servono poi a risvegliare gli indecisi. A rincorrere le tecniche di Beppe Grillo, che secondo i sondaggi sono particolarmente efficaci. In particolare, il Cavaliere ha bisogno di calamitare quell’elettorato di grana più grossa, abituato al linguaggio da bar e rimasto orfano del turpiloquio di Umberto Bossi. Tutto serve per raccogliere voti, anche le «cazzate» di Monti. Che peraltro è in buona compagnia: secondo Berlusconi, nemmeno l’allenatore del Milan «capisce un c…».