Chi può smentire il Cavaliere-da-smacchiare quando sostiene – come ha fatto ieri sera alla fiera di Milano – che in base ai suoi sondaggi riservati la coppia Pdl-Lega ha superato l’alleanza di sinistra? Ovviamente nessuno, perché si dovrebbe ufficializzare ciò che deve restare riservato, ovverosia i risultati di qualche rilevazione demoscopica. In realtà le tendenze possono essere rintracciate su internet, in particolare su siti specializzati a rilevare i trend politici, i quali camuffano le analisi in loro possesso.
Questi strani report fino a ieri identificavano uomini e partiti; oggi invece sono mascherati da allusioni a corse di cavalli o toto-conclave. Leggerli regala qualche momento di leggerezza in un clima politico che resta poco incline al sorriso.
Le tendenze reali non sono proprio quelle sbandierate dal Cavaliere. Il Pdl e la Lega restano sotto il Pd-Sel, che si avvia a vincere alla Camera nonostante la prolungata flessione accusata in campagna elettorale: per sua fortuna, Bersani è partito forte sotto la spinta delle primarie d’autunno, altrimenti il suo destino sarebbe già segnato. Il Pdl rischia di dover cedere il secondo gradino del podio ai Cinquestelle di Grillo, in ascesa e forse ancora non adeguatamente stimati nelle analisi a campione.
Monti è la vera incognita. In campagna elettorale si dava per acquisito un 15 per cento; ma gli errori commessi (le promesse di stampo berlusconiano, il progressivo distacco dall’Agenda, le cadute di tono, le gravi incertezze di strategia nel voto disgiunto per le regionali in Lombardia) potrebbero costare cari. Se l’accordo con Bersani è nell’ordine delle cose, ora si rafforzano i timori che potrebbe non bastare per garantire una maggioranza abbastanza solida per reggere l’impatto soprattutto dei «vietcong» grillini, che – quanto più numerosi saranno – semineranno la guerriglia alle Camere, nelle commissioni e in aula.
Scontata la stampella di Monti, Bersani potrebbe trovarsi a un bivio dopo il voto per rafforzare l’esecutivo che – con tutta probabilità – sarà chiamato a comporre: imbarcare Ingroia oppure aprire a Berlusconi. La prima opzione è male considerata non solo dai partner europei, che potrebbero non digerire un netto spostamento a sinistra del governo su posizioni economiche filo-Cgil, ma soprattutto da colui che deve dare l’incarico di formare l’esecutivo, cioè il presidente Napolitano, che proprio da Ingroia fu intercettato. E che non riesce ancora a cancellare le trascrizioni di quelle malaugurate chiacchierate con Mancino e D’Ambrosio.
Ecco allora riaffacciarsi l’ipotesi di riformare il governo dell’ultimo anno: Pd-Pdl-centristi. Non avrebbe più Monti alla guida, ma Bersani, leader del primo partito italiano. Dunque un esecutivo politico, non tecnico ma istituzionale, che peraltro (come ilsussidiario.net rilevò tempo fa) esponenti bipartisan come Fassina e Brunetta non hanno escluso. Un accordo almeno biennale che garantisca un accordo sul nuovo inquilino del Quirinale, una nuova legge elettorale, un assestamento non traumatico dei conti pubblici (in estate è già previsto l’aumento dell’Iva e si teme una nuova manovra primaverile), un disinnesco delle proteste grilline.
Per Bersani sarebbe una mezza sconfitta, per Berlusconi una mezza vittoria, per Monti un salvagente in extremis. Certo, ci vuole coraggio e tensione al bene comune più che al proprio orticello. Oppure serve una concreta minaccia di caos istituzionale da evitare: e a concretizzare questa prospettiva penseranno le truppe di Beppe Grillo.