«Un risultato straordinario», esulta Angelino Alfano. In effetti i numeri parlano chiaro. Un partito che tre mesi fa era in agonia ha sfiorato un successo clamoroso, mancando la vittoria per meno del 2 per cento. Ha conquistato regioni importanti come Lombardia, Veneto, Campania, Puglia, Sicilia. Al Senato ha ottenuto più seggi del Pd, avendo concentrato i propri voti nelle regioni più rappresentative e lasciato al centrosinistra i suoi territori tradizionali, cioè l’Italia centrale delle regioni «rosse». Pur essendo arrivato secondo, e nonostante un crollo di consensi, Silvio Berlusconi ha ragione di esultare al contrario di Pierluigi Bersani.

Il giaguaro non è stato smacchiato, anzi è il domatore che rischia di ritrovarsi a «pettinare le bambole». E presto assisteremo allo spettacolo di un giaguaro ubriaco, come Berlusconi aveva promesso di fare se Fini fosse rimasto fuori dal Parlamento. Evidentemente i sondaggi in possesso di Berlusconi erano ben calibrati: al Senato la Scelta civica di Mario Monti dovrebbe avere meno di 20 rappresentanti e alla Camera bisognerà attendere il completamento dello scrutinio. La coalizione centrista, infatti, avrà qualche deputato soltanto se supererà il 10 per cento. E se anche dovesse ottenerne, apparterranno a Scelta civica e Udc, non a Futuro e libertà. Gianfranco Fini è avviato alla pensione: una battuta che girava su Twitter è che l’ex presidente di Montecitorio si è cacciato da solo.

Il Cavaliere è in una posizione che gli consente di aspettare la mossa dell’avversario. Il Pd ha la maggioranza alla Camera, sia pure per poche centinaia di migliaia di voti, ed è a Bersani che tocca fare la prima mossa. Si farà carico di formare un governo o passerà la mano a un «simil-Monti»? E chi imbarcherà sul vascello fantasma, Grillo o il Pdl? Al momento non è ipotizzabile un’apertura decisa al «governissimo», che pure in una prospettiva di riforme appare una strada obbligata.

Se volesse gettare ulteriore scompiglio a sinistra, Berlusconi potrebbe rispolverare la proposta di «grande coalizione» che fece nel 2006 a Romano Prodi dopo la risicatissima sconfitta. I parlamentari berlusconiani sono comunque indispensabili per eleggere il capo dello Stato. E su questo terreno Bersani dovrà lanciare spiragli. Il risultato delle urne, forse insperato anche per il centrodestra, mostra che il blocco sociale che negli ultimi vent’anni è stato rappresentato dal Cavaliere ha perso pezzi, ha subìto uno sgretolamento, ma non è stato frantumato. E bisognerà continuare a farci i conti.

Per il centrodestra, viceversa, è più problematico il rapporto con la Lega. Oggi sapremo se Roberto Maroni avrà conquistato la presidenza della Lombardia, come è prevedibile visto il netto vantaggio della coalizione Pdl-Lega in Parlamento. 

Il Carroccio ha però segnato un risultato disastroso: paradossalmente il partito che per primo aveva osteggiato il governo Monti non ne ha ricavato benefici. La Lega paga gli scandali interni e la riedizione dell’alleanza con Berlusconi, osteggiata dalla base che in molte zone del Nord ha preferito votare Grillo.

I padani non verranno in aiuto al Cavaliere in caso venga riproposto un governo di «impegno nazionale» o simili: dalle grandi coalizioni la Lega starà alla larga. Il che conferma che l’alleanza tra i due (ex) alleati era puramente tattica, finalizzata ai rispettivi obiettivi dei partiti: per l’uno, conquistare la Lombardia; per l’altro, impedire la vittoria della sinistra. Ora il Carroccio e i berlusconiani tornano a dividersi nelle strategie «romane» mentre continueranno a governare le grandi regioni del Nord e un buon numero di amministrazioni locali. Una «strana coppia» per la quale non è suonata l’ora dell’addio definitivo.