Una seconda «traversata del deserto»: è questa la prospettiva alla quale si sta preparando, gonfio di soddisfazione per i successi colti, Silvio Berlusconi. La prima avvenne tra il 1996 e il 1999, i tre anni che intercorsero tra la sconfitta elettorale a opera di Romano Prodi e la riscossa alle elezioni europee, quando il Professore era già caduto ed era stato sostituito da Massimo D’Alema. Il Cavaliere si sottrasse alla prima linea della politica, lasciò che il centrosinistra si facesse del male da solo, riorganizzò Forza Italia e preparò la vittoria elettorale che contava, quella del 2001.
Quel successo fu propiziato da una mossa politica abile, che fece rientrare Berlusconi nei giochi, cioè un’altra elezione di un capo di Stato, Carlo Azeglio Ciampi. La diplomazia berlusconiana guidata da Gianni Letta favorì la nomina dell’ex governatore di Bankitalia al primo scrutinio, e ciò portò consenso a Forza Italia che si era dimostrata capace di fare politica, mediare, trovare accordi, operare per il bene del Paese guardando al di là del proprio schieramento.
Qualcosa di analogo è successo 14 anni dopo. In un frangente drammatico per il caos politico e l’emergenza dell’economia, Berlusconi non ha rivendicato per sé e nemmeno per qualcuno dei suoi il Colle. Ha preso atto che il Pdl non è il partito leader e ha messo in campo l’unica strategia praticabile: quella di cercare un accordo con il Pd valido per il Quirinale e per Palazzo Chigi, lasciando ai democratici il compito ingrato di fare la prima mossa, proporre i nomi, lanciare le strategie. Il risultato è stata l’implosione del Pd su se stesso, sepolto dalle proprie contraddizioni e dalle ambiguità del rapporto con la sinistra massimalista interna ed esterna, cioè tutti coloro – dalla Bindi a Vendola – che proclamano «mai con Berlusconi».
Il Cavaliere aveva due obiettivi che ha raggiunto: un presidente di garanzia e un coinvolgimento nel governo. Ne ha ottenuti altri due, insperati: la caduta di Bersani e la figuraccia di Romano Prodi, della quale peraltro il Professore è vittima e non responsabile. «Strike» per Silvio, si direbbe se fosse una partita a bowling. Tanti centri con un colpo solo.
Ma Berlusconi sa anche che lo attendono altre sfide cariche di incognite. La prima è interna al Pdl, cioè costruire una leadership in grado di dare continuità al partito. La campagna elettorale ha mostrato ancora una volta che il Pdl è Berlulsconi e solo lui. Senza una struttura di vertice coesa, fatta di personalità in grado di prendere in mano il partito, l’ex premier corre il grave rischio di fare la stessa fine del Pd, cioè essere incapace di gestire una vittoria elettorale, sia pure risicata.



L’altro obiettivo che Berlusconi deve porsi, anche questo tutt’altro che scontato, è riprendersi i voti emigrati dal centrodestra verso Grillo. Molti elettori delusi da Berlusconi si saranno forse pentiti di aver sostenuto un movimento che voleva Rodotà al Quirinale e che propone un unico rimedio ai mali dell’economia italiana, una ricetta inaccettabile per un liberale: la statalizzazione di scuole, ospedali, banche (quella del Montepaschi è stata chiesta ancora ieri da Grillo). Ma non è affatto detto che i «pentiti di Berlusconi» forse «pentiti di Grillo» si pentano per la terza volta e tornino automaticamente dove sono inizialmente venuti.
La struttura che dovrebbe assumere il nuovo governo può favorire questa nuova «traversata del deserto». Il Pdl non avrà il premier né molti ministri, forse Alfano vicepremier e il «saggio» Quagliariello in un dicastero; Berlusconi darà un appoggio politico dal quale non potrà prendere le distanze «a posteriori» come ha fatto con l’esecutivo di Mario Monti. Silvio avrà così la possibilità di dedicarsi a riprendersi i voti perduti e costruire una nuova linea di comando. Sempre che il quasi 77enne Berlusconi, coetaneo di Papa Bergoglio e di un decennio più giovane dell’arzillo Napolitano, non continui a coltivare sogni di immortalità politica.

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