Silvio Berlusconi benedice e blinda il «decreto del fare» varato dall’esecutivo Letta dopo un’estenuante mediazione, il primo vero atto concreto anticrisi degli ultimi due anni. Il sigillo arriva con una telefonata a Studio Aperto, telegiornale di famiglia, all’ora di pranzo di domenica, un buon momento per rassicurare gli italiani. È vero che in queste settimane il Cavaliere non ha lesinato il sostegno al governo, ma questo «via libera» giunge in un momento particolarmente delicato delle larghe intese, del Pdl e del futuro personale del leader del centrodestra.



Il sostegno al governo è esplicito. Il decreto è «un grande risultato» frutto di quel «fatto epocale» rappresentato dalle larghe intese, quella «collaborazione tra destra e sinistra dopo decenni di contrasti, che io spero possa durare». È un segnale preciso diretto a Letta e Napolitano, ma soprattutto al Pd, che si prepara al congresso con sempre meno voglia di sostenere l’attuale esecutivo, accarezzando l’ipotesi di un ribaltone che metta assieme una coalizione con lo stesso Pd, Sel e la pattuglia di parlamentari grillini prossima alla scissione dal M5S.



È una prospettiva difficile, che sbatte contro i numeri prima che contro la praticabilità politica: la coalizione Pd-Sel, poi disarticolata dalle larghe intese, avrebbe bisogno di altri 40 senatori per avere la maggioranza a Palazzo Madama (alla Camera sono già 340). E i grillini contano su 54 scranni in quel ramo del Parlamento: portarsene dietro il 75 per cento (e sarebbe il minimo indispensabile per una maggioranza risicatissima) appare utopia. Ma il solo fatto che se ne parli testimonia il nervosismo dei democratici verso le larghe intese. Lo stesso segretario Guglielmo Epifani, un sostenitore di Letta che non può trascurare gli umori interni al partito, ha fatto sapere: «Non è detto che alla fine di un governo corrisponda la fine di una legislatura».



Berlusconi lancia poi un salvagente ad Angelino Alfano e alla sua pattuglia di governo. «Sono molto soddisfatto, ho fatto i complimenti ai nostri ministri che si sono battuti per introdurre nel decreto le misure che avevamo sostenuto in campagna elettorale», ha spiegato. Nel perenne braccio di ferro interno al Pdl tra falchi e colombe, è un punto a favore di queste ultime, dell’ala dialogante che soffre meno la convivenza con i riformisti del Pd. E comunque l’ultima parola è sempre sua, del Cavaliere, non dei vari Brunetta, Santanché, Cicchitto, e neppure di Alfano.

A ben guardare, l’Imu sulla prima casa resta rinviata – non cancellata – e lo spettro dell’aumento Iva incombe ancora: il pacchetto fiscale della campagna elettorale è stato adottato molto parzialmente. Inoltre non c’è ombra delle coperture ipotizzate a suo tempo dal Cavaliere, cioè l’accordo fiscale con la Svizzera per un nuovo «scudo». 

Qualcuno nel Pdl dovrebbe ricordarci che fine ha fatto quella proposta. Ora Berlusconi dice: «Su 800 miliardi di costo della macchina dello stato, non è possibile che non si possano trovare otto miliardi, quattro per l’Imu e quattro per l’Iva». Per il Pdl, il risultato più eclatante del decreto è l’altolà al rigore eccessivo di Equitalia con la non pignorabilità della prima casa.

Dal punto di vista programmatico, restano tutte le distanze tra Pd e Pdl. Letta e il centrosinistra insistono nello spingere verso politiche che favoriscano il lavoro, l’occupazione e le imprese, e negli ultimi giorni hanno incassato il sostegno importante sia dei sindacati sia di Confindustria. Il centrodestra invece batte il chiodo dei tagli fiscali (Iva e Imu) a favore di famiglie e consumatori. Gli uni fanno leva sul sociale, gli altri sul fisco: è la frontiera che differenzia maggiormente gli «strani alleati».

Su tutto però incombe la «road map» giudiziaria che attende Berlusconi nei prossimi dieci giorni. Le parole di ieri a sostegno dell’esecutivo Letta consolidano la tesi secondo cui un’eventuale caduta del governo sarà tutta e solo colpa del Pd. L’ennesima dimostrazione di responsabilità. Un modo per invocare la clemenza della Corte.