Angelino Alfano sempre più mattatore nel governo e nel Pdl. Lesto e abile, ha raccolto l’assist di Enrico Letta sul presidenzialismo e ha rilanciato. Risultato: ha provocato qualche nuovo scossone all’interno del Partito democratico rafforzando la sua posizione nell’esecutivo come perno dell’azione pidiellina e, nonostante i malumori dei «falchi» radunati in Sardegna dal Cavaliere, ha consolidato anche la leadership nel partito.

Il primo passo l’ha fatto il premier, che conferma la capacità di lanciare i temi e «vedere l’effetto che fa». A Trento, con un linguaggio trasversale, ha detto che l’ultima elezione del capo dello Stato «è stata drammatica per la nostra democrazia. Non credo potremmo più eleggere il presidente della Repubblica in quel modo, perché assegnare questa elezione a mille persone non è più possibile». Frasi che si prestano a più letture. Vi si può vedere, come fanno i «frenatori» del Pd, il rammarico per aver bruciato candidati come Marini e Prodi. Oppure l’allarme per l’immagine che sia una «casta» intoccabile a scegliere la persona per l’incarico istituzionale più lungo in Italia. E infine anche una svolta presidenzialista: se «assegnare a mille persone» quell’elezione è diventato insostenibile, significa che è ora di passare all’elezione diretta.

Essendo il presidenzialismo (anche in forma ridotta) una vecchia battaglia di Silvio Berlusconi, il vicepremier Alfano ha immediatamente approfittato dell’apertura di Letta per consolidare la proposta. «Noi facciamo da sempre una grande battaglia per il presidenzialismo, nel Pdl siamo assolutamente d’accordo sull’elezione diretta», ha detto ieri Alfano a margine della manifestazione del 2 giugno. «Se riuscissimo a farla sarebbe una grande prova di democrazia, come succede in Paesi come Francia e Stati Uniti. Ci abbiamo provato l’anno scorso in Senato e adesso arrivano spiragli significativi dal Pd. Sarebbe un modo per aumentare l’affetto dei cittadini verso le istituzioni».

Il segretario del Pdl approfondisce la breccia già aperta nel Pd: all’idea presidenzialista, o anche semipresidenzialista, è contrario un fronte che va da Rosi Bindi («Alfano pensi alla crisi e lasci perdere la Costituzione», ha sibilato ieri) ai «giovani turchi» come Matteo Orfini e raggiunge Sel e Rodotà. «No comment» del presidente Napolitano, che insiste nei 18 mesi per le riforme mentre sul loro contenuto assicura che resterà neutrale. Favorevoli invece i riformisti democratici, a partire dal segretario Epifani. Una riforma del genere metterebbe in sicurezza il governo delle larghe intese e probabilmente gli consentirebbe di traguardare l’anno e mezzo continuando la difficile navigazione.

Paradossalmente, nel centrodestra l’uscita di Alfano ha raccolto meno entusiasmo del prevedibile. Il vicepremier ha avuto l’avallo di Gasparri e Gelmini, ma dal ritiro della Costa Smeralda (dove con Berlusconi erano riuniti Verdini, Santanché e Capezzone) non sono venuti apprezzamenti – ma a onor del vero neppure sconfessioni. «Del tutto inutile» è invece il presidenzialismo secondo il segretario leghista Roberto Maroni. Al Cavaliere in questo momento (a parte l’evolversi dei problemi giudiziari) interessa spingere sulla riduzione delle tasse e sui provvedimenti economici del governo, più che sulle riforme: Imu, Iva, misure per la crescita. Ma Alfano era stato a Villa Certosa prima dei falchi, ed evidentemente aveva avuto conferma della sua libertà di azione.

Nel Pdl si svolge una complessa partita, in cui entra anche il doppio ruolo di Alfano come vicepremier e segretario del partito. Per ora nessuno contesta apertamente, ma i malumori crescono. Dal fine settimana di Porto Rotondo non sono uscite novità per i vertici del partito. Alfano continua dunque a tessere la tela del rapporto con Letta e con la parte della sinistra più sensibile all’azione concreta del governo piuttosto che alle diversità ideologiche o alle antipatie personali.