Gli scandali degli ultimi giorni hanno fatto cadere ieri due teste. Non sono quelle del vicepremier Angelino Alfano, ministro dell’Interno finito nel mirino per il rimpatrio in Kazakhstan di moglie e figlia del dissidente Ablyazov, né di Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato reo di aver insultato il ministro Kyenge. La legge giustizialista che pretende colpevoli e capri espiatori ha ghigliottinato due alti funzionari del Viminale: il capo di gabinetto e il capo della segreteria del dipartimento di pubblica sicurezza.
Sono loro i vertici dell’operazione che ha portato all’espulsione di fine maggio. La relazione del capo della polizia, Alessandro Pansa, si ferma a loro. Si blocca dunque una porta prima dell’ufficio del ministro, individuando nel suo capo di gabinetto (che ricevette l’ambasciatore del Kazakhstan e verosimilmente ne raccolse i suggerimenti operativi) il responsabile ultimo.
Alfano è salvo, rimane ministro dell’Interno, ma a prezzo di una giustificazione che in realtà non dovrebbe mai giustificare nulla: le cose si sono svolte a sua insaputa. Egli ignorava. Il governo (dunque nemmeno la Farnesina di Emma Bonino, sempre così attenta alla difesa dei diritti umani) non era stato informato. Tuttavia l’esecutivo regge, non cade, puntellato da troppi interessi concomitanti benché di segno diverso.
«A mia insaputa». Questa giustificazione non era servita a Claudio Scajola per conservare il posto di ministro quando scoppiò lo scandalo dell’appartamento al Colosseo comprato a prezzi di favore. Molto più recentemente, l’ingenua ignoranza non è bastata a Josefa Idem per restare ministro allorché si è saputo della disinvoltura con cui lei (o il marito, o i suoi consulenti fiscali) avevano trattato una materia cui gli italiani sono oggi molto sensibili: le tasse sulla casa.
Alfano resta ministro perché le dimissioni avrebbero comportato la caduta del governo. L’addio di Alfano equivaleva ad ammettere che aveva mentito, e prima di lui aveva mentito anche il capo della polizia (la cui relazione sulla vicenda è stata consegnata con un giorno di anticipo rispetto al previsto e resa pubblica quasi immediatamente): non va dimenticato che Pansa è stato nominato da poche settimane con consenso bipartisan dopo lunghe diatribe tra Pd e Pdl.
Il governo si salva a prezzo di rivelare che i suoi ministri vengono tagliati fuori da decisioni-chiave e che un dicastero importante come l’Interno è una macchina fuori controllo. Il Viminale non era stato in grado di accertare che Ablyazov era un dissidente e un rifugiato politico: forse sarebbe bastato un giro veloce su Google.
La brutta figura internazionale dunque rimane, anche se il ministro Bonino ha convocato l’ambasciatore kazako per chiarimenti. Tanto più che sempre ieri l’Unione europea ha chiesto ragguagli sulla vicenda e su eventuali violazioni dei diritti delle persone rimpatriate.
Il Pdl minimizza puntando il dito sulla coincidenza di tanti interessi: i rapporti commerciali con il Kazakhstan − soprattutto le forniture di gas − che fanno gola ad altri Paesi e il fremere di Matteo Renzi, il quale (assieme al «partito di Repubblica» che ne è diventato il principale sponsor) attende la caduta del governo Letta per subentrarvi. Il Pd tace, diviso tra l’insofferenza verso un governo sempre più affaticato e lontano, e l’ossequio alla volontà quirinalizia di tirare avanti. Oggi è Renzi l’avversario più pericoloso per Letta. Fatto sta che l’esecutivo è indebolito dall’intrigo kazako e non si avvicina nelle condizioni migliori al momento in cui la Cassazione dirà l’ultima parola sul processo Mediaset e la condanna di Silvio Berlusconi.