Sottotraccia, senza clamori, coperto dalle discussioni più nazional-popolari su Imu e Iva, c’è un terreno di confronto tra Pd e Pdl che lentamente cerca di muoversi: quello delle riforme istituzionali. Il comitato di Saggi nominati dal governo si riunisce, discute, analizza, anche se per ora i passi avanti concreti sono pochini. È forse per pungolare questo autorevole consesso che ieri il presidente Giorgio Napolitano ha mandato un segnale inaspettato. Poche parole che confermano – e implicitamente criticano – la sostanziale impasse del processo riformista. Uno stallo che il Quirinale fatica ad accettare proprio perché la vita del governo, come ha ammesso il premier Letta all’atto dell’insediamento, è vincolata alle riforme da approvare entro 18 mesi.



«So che c’è un problema – ha riconosciuto il capo dello Stato -, che verrà sciolto via via, di rapporto tra le riforme istituzionali e la riforma elettorale». Napolitano si è mostrato comunque fiducioso: «C’è un preciso programma già definito dal governo, sia per i tempi, sia per i temi». Una puntura di spillo, un colpetto di speroni nei fianchi del cavallo. Le questioni che si intrecciano sono parecchie, e alcune piuttosto tecniche. Tra i partiti manca l’accordo sulla legge elettorale, che però va sicuramente trovato perché Napolitano non vuole che alle prossime elezioni si voti ancora con il “porcellum”. Senza contare la quasi certa bocciatura della legge attuale che potrebbe giungere dalla Corte costituzionale. E questo significa l’obbligo di riscrivere il sistema di voto.



Su proposta del Pdl, la questione è stata posta in subordine rispetto alla nuova forma di governo. In sostanza, prima si decide quale sarà il nuovo assetto istituzionale (parlamentarismo corretto, presidenzialismo, semipresidenzialismo) e poi gli si cuce addosso un meccanismo di voto adeguato. È in questo senso che Napolitano, per inciso, osserva che il problema «verrà risolto via via». Ma neppure su questo tema c’è accordo. I Saggi sono divisi a metà tra sostenitori del parlamentarismo e del semipresidenzialismo con elezione diretta del capo dello Stato. Lo ha detto ieri il ministro Gaetano Quagliariello dopo la quinta sessione del dibattito tra esperti.



Che cosa impedisce di fare passi avanti? Nessuno lo dice apertamente, nella dialettica dei saggi non se ne fa cenno esplicito; tuttavia, il convitato di pietra al tavolo delle riforme si chiama «fattore B». È sempre Silvio Berlusconi a determinare la differenza di vedute, a dividere.

I fautori del parlamentarismo, cioè un sostanziale mantenimento dell’attuale assetto benché temperato da maggiori poteri al governo e al premier (come la nomina diretta dei ministri se non la potestà di sciogliere le Camere), temono l’ombra del Cavaliere deciso a giocarsi l’ultima partita. Le vicende politiche e giudiziarie del leader del centrodestra sembrano dunque incombere sul lavoro dei Saggi. 

D’altra parte, i sostenitori del semipresidenzialismo alla francese (con elezione del capo dello Stato a suffragio universale a doppio turno) sostengono che nella stagione delle primarie – in cui i cittadini vengono chiamati a scegliere direttamente i leader dei partiti e, di fatto, anche i candidati a Palazzo Chigi – non si può continuare a insediare l’inquilino del Colle con il sistema in vigore. E poi il ballottaggio favorisce il consolidarsi del bipolarismo e dell’alternanza, che anche secondo i Saggi dovrebbero diventare fisiologici e non eccezionali.

Quagliariello ha fatto capire che la spaccatura difficilmente troverà composizione. È scontato, ha detto, che gli esperti non arriveranno a una posizione comune. Ma ha anche precisato che in entrambi gli schieramenti prevalgono le colombe a scapito dei falchi, cioè non c’è un muro contro muro. Invece si concorda sulla necessità di rafforzare la capacità decisionale delle istituzioni, la cui debolezza è considerata uno dei fattori più acuti della crisi attuale. Da parte sua, il ministro preferisce conservare un ruolo sopra le parti: né falco né colomba, «io sono una quaglia» ha scherzato. A denti stretti.

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