Nove settembre, giorno del giudizio. È la data in cui è convocata la giunta per le elezioni del Senato che si occuperà del futuro di Silvio Berlusconi. L’8 settembre 1943 di badogliana memoria è distante 70 anni e un giorno, un anniversario troppo facile e troppo comodo: la caduta di Mussolini, la fine di un altro ventennio. Il Duce dovette fuggire, nacque un governo provvisorio, la storia d’Italia prese una piega irreversibile.

Che cosa succederà il 9 settembre 2013? Nulla, non accadrà nulla. Non assisteremo a cacciate, ribaltoni, rovesciamenti di regimi, fughe precipitose. E non perché si debba salvare il soldato Berlusconi, ma perché lo impongono le regole parlamentari. Non succederà niente. La giunta è convocata alla sera. Si aprirà un dibattito sulla relazione introduttiva di Andrea Augello, Pdl, che ben difficilmente metterà ai voti la decadenza del suo capo. Si voterà più avanti. E se la relazione Augello verrà bocciata, si dovrà nominare un nuovo relatore, e si ripartirà daccapo.

Dunque, meglio sgombrare il campo dagli equivoci: chi ha messo lo spumante al fresco nella convinzione di brindare lunedì prossimo alla cacciata del Cav dal Senato – e dunque dalla politica -, dovrà rimandare il brindisi a tempi che al momento nessuno è in grado di prevedere. Per il caso di Cesare Previti la giunta lavorò oltre sei mesi. È un punto importante a favore della strategia di Berlusconi, che dallo scorso 1° agosto, dopo la condanna definitiva in Cassazione, è soltanto una: prendere tempo.

Guadagnare giorni, settimane, mesi è essenziale per il leader del Pdl. Il tempo è amico di chi cerca vie d’uscita dal labirinto, mentre la fretta è cattiva consigliera. Un alleato insperato si sta rivelando il Pd. Lacerato, arrabbiato, esasperato, incerto. I democratici si presentano peggio, in fondo, di quanto non appaia il Pdl, dove falchi e colombe si alternano nel tentativo di conquistare l’egemonia. Oltre che nel sostegno al governo, il Pd aiuta il Pdl nel salvare se stesso e il proprio leader.

Un presidente del Consiglio, Enrico Letta, salito a Palazzo Chigi come vicepresidente del Pd, che ammette candidamente di credere poco in quello che sta facendo: non è questo il mio governo, ha detto alla Festa democratica. Un segretario, Guglielmo Epifani, a scadenza come lo yogurt e quindi privo di potere reale. Una lotta pre-congressuale lacerante, tra le eterne ambizioni di Matteo Renzi e le resistenze dell’apparato, in cui probabilmente le velleità di Letta sostituiranno quelle di Pierluigi Bersani. Un dibattito interno in cui parole di buon senso come quelle di Luciano Violante diventano pretesto per mettere sotto processo lui, e non più Berlusconi.

Le divisioni del Pd aiutano la strategia del Cav. Perfino Violante, uno che − per sua ammissione − non è mai stato garantista ma soltanto legalitario (cioè paladino delle regole), pur negando di volere aprire vie d’uscita a Berlusconi viene fatto passare per uno che intende regalare l’agognata “agibilità politica” all’odiato nemico. Il quale, dopo l’uscita di sabato per firmare i 12 referendum radicali, sceglie di nuovo il silenzio, imitato dai suoi. Ieri nessuna dichiarazione del leader. Niente risposte alle provocazioni di Rosi Bindi o Stefano Fassina, per i quali Silvio dovrebbe dimettersi spontaneamente, senza nemmeno discutere il caso in Parlamento. Le poche battute rilasciate dalle seconde file del partito sono tutte a supporto di Violante, nuovo e inatteso alleato. Prudenza e attendismo. Adesso l’importante per il Pdl è guadagnare tempo prezioso.