La crisi precipita. Improvvisamente, dopo un pranzo con i falchi Verdini e Santanché, Silvio Berlusconi manda una nota alle agenzie invitando i ministri del Pdl a dimettersi, e poco dopo una dichiarazione di Angelino Alfano, vicepremier e segretario (evidentemente senza poteri) del Pdl, obbedisce agli ordini e annuncia le dimissioni. Che però, formalmente, non ci sono ancora. Ma di fatto il governo delle larghe intese è in agonia.

La mossa di Berlusconi era stata preceduta da un altro passaggio: la richiesta di ricusare la Giunta del Senato chiamata a decidere sulla decadenza. Un tentativo inutile di allungare ulteriormente i tempi. E quindi, se non c’è alternativa all’aumento dell’Iva di martedì, se Letta e Napolitano fanno fronte comune per “vedere” (come al poker) se le dimissioni dei parlamentari Pdl sono l’ennesimo bluff, se le larghe intese sono ridotte a una formula logorata per tirare a campare, tanto vale chiuderla qui. L’avventura del governo politico Pd-Pdl è durata esattamente cinque mesi.

Quello di Berlusconi è stato un vero colpo di mano: pare addirittura che alcuni ministri non ne fossero stati informati. Tacciono i profili twitter di Alfano, Lupi, Quagliariello. Timide proteste di Cicchitto e Augello, che preferivano un confronto almeno nei gruppi parlamentari. Il fronte dei falchi puntava a due obiettivi: evitare il voto di fiducia alle Camere e accelerare verso le elezioni, perché – almeno in teoria – c’è ancora lo spazio per urne anticipate a novembre. La fiducia sancirebbe senza equivoci favorevoli e contrari al governo Letta; senza voto tutto resta nell’ambito dell’eterna lotta per lo scarico di responsabilità. E in caso di elezioni ravvicinate, Berlusconi (o chi per lui, visto che a novembre il Cavaliere sarà ai domiciliari o ai servizi sociali) si presenterebbe agli italiani dicendo: noi non siamo stati complici di chi ha aumentato l’Iva.

Dopo lo sconcerto iniziale, è giunta la contromossa di Napolitano-Letta: nessuna accelerazione, il premier prenderà l’interim dei cinque dicasteri rimasti vacanti, si consulterà con il Colle e si presenterà al Parlamento la prossima settimana sperando di aver raccolto nel frattempo qualche sussulto di responsabilità tra le colombe del Pdl disponibili a un ulteriore strappo da Berlusconi. Al momento il partito del Cavaliere sembra compatto, ma il silenzio di queste ore di molti esponenti di primo piano del Pdl (a partire, come detto, dai ministri) autorizza a non escludere che possano aprirsi crepe. L’eventuale governo avrebbe comunque durata breve, lo stretto necessario per approvare la legge di stabilità e cambiare legge elettorale. Poi a febbraio si voterebbe di nuovo. Con quali prospettive di maggiore governabilità e stabilità, non si sa.

Non solo il Pdl, ma anche il Pd e Grillo vogliono andare a votare con il Porcellum. La verità è che fa comodo a tutti un sistema che − teoricamente − regala il 55 per cento dei seggi delle Camere alla coalizione o al partito che veleggia attorno al 30-35 per cento. Il Pd non ha fatto nulla per frenare il precipitare degli eventi, dilaniato dai contrasti interni. I grillini avevano fatto balenare l’ipotesi di appoggiare un governo “di scopo” per la modifica del Porcellum, ma ieri la coppia Grillo-Casaleggio ha fatto sapere che il M5S vuole andare al voto con la legge in vigore.

Lo scenario più probabile è che il Quirinale, una volta apertasi formalmente la crisi, prenda un certo tempo per le consultazioni per evitare il voto a novembre. Sicuramente non si dimetterà, benché in aprile avesse legato la rielezione alla stagione delle larghe intese: non lascerà il Paese senza presidente, senza governo e senza Camere, visto che i parlamentari del Pdl hanno consegnato la lettera di dimissioni.