Probabilmente Silvio Berlusconi avrebbe sottoscritto qualsiasi proposta gli fosse stata offerta da un segretario democratico che l’avesse invitato e ospitato con tutti gli onori nella sede del partito. La giornata di ieri è quella che gli americani definirebbero «win-win»: vincono entrambi. Vince Silvio e vince Matteo.
Berlusconi vince perché finalmente un leader del partito avversario lo riconosce come interlocutore, e ciò avviene dopo la condanna per frode fiscale. Si rodono il fegato coloro che hanno combattuto il Cavaliere per via giudiziaria e pensavano di averlo definitivamente escluso dalla scena politica: Berlusconi è riapparso legittimato dal suo principale avversario e ruba la scena ad Angelino Alfano e al Nuovo centro destra, che sembrava il futuro protagonista di quell’area politica e invece deve prendere atto che, per sopravvivere, dovrà andare ancora a rimorchio del vecchio leader.
Renzi ovviamente vince perché, in 40 giorni da segretario del Pd, è riuscito a imporre un’accelerazione al quadro politico sulle riforme istituzionali e in particolare sulla legge elettorale, sulla quale il capo dello Stato batteva invano da mesi e mesi. E vince perché, nonostante i timori della vigilia, l’intesa raggiunta con Berlusconi è di respiro tale da non prevedere un voto a maggio assieme alle amministrative e alle europee, ma concede al governo Letta un altro anno.
L’incontro tra Renzi e Berlusconi, durato due ore e mezzo nella sede Pd e accompagnato dalle proteste dell’ala giustizialista della sinistra (l’ex pm palermitano Ingroia ha efficacemente sintetizzato così: un leader spregiudicato incontra un pregiudicato) modificherà la legge elettorale in senso bipolare con la riduzione del potere di interdizione dei piccoli partiti. Oltre a ciò, è prevista la fine del bicameralismo perfetto con un declassamento del ruolo del Senato, operazione che richiede tempi lunghi in Parlamento e quindi garantisce ossigeno a Enrico Letta. L’altro Letta, lo zio Gianni, era a fianco di Berlusconi a garanzia della serietà dell’impegno assunto da Forza Italia. I termini dell’intesa si sapranno lunedì quando Renzi porterà al vertice del Pd i risultati dell’incontro di ieri.
Prendere tempo conviene a tutti. Berlusconi, nonostante i proclami, non ha la forza per affrontare una campagna elettorale entro pochi mesi, con l’incombere dei servizi sociali e la difficile individuazione di un candidato all’altezza. Renzi non può cedere alla tentazione di intascare subito il dividendo della larga supremazia nel partito perché deve rassicurare Napolitano, né può togliere spazio a Letta. Entrambi potranno tenersi le mani libere per continuare l’opera di indebolimento del governo senza però dargli la spallata più potente per farlo cadere.
A entrambi conviene tenere Enrico Letta a Palazzo Chigi per continuarne il lento logoramento e avere un capro espiatorio su cui scaricare ritardi e insuccessi: Renzi insiste a screditare (sebbene non apertamente) il premier, mentre Berlusconi toglie terreno sotto i piedi degli alfaniani, che sono i veri sconfitti della giornata di ieri. Quando avvenne la scissione dal Pdl, dovevano diventare gli interlocutori privilegiati del centrosinistra; viceversa ora appaiono come una forza politica dotata di un peso sproporzionato al reale radicamento.
Enrico Letta invece ha fatto buon viso davanti alla piega degli avvenimenti, che nell’ambito del centrosinistra vede sempre Renzi come motore di novità. La riforma del titolo V della Costituzione è di fatto un programma a media scadenza che Palazzo Chigi intende come viatico per un altro anno, comprendendo il semestre di presidenza europea e probabilmente l’avvio dell’Expo. Un percorso che non rinnega le larghe intese volute dal capo dello Stato, il quale ha sempre auspicato riforme condivise. Chi non può gioire è Alfano. Ma davanti a una soluzione che sostanzialmente soddisfa Pd, Forza Italia, il Colle e Palazzo Chigi è difficile che gli scissionisti del vecchio Pdl possano battere i pugni sul tavolo e provocare una crisi di governo.