Il telefono, la loro voce. Corre nelle eteree onde dei cellulari la trattativa tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulla legge elettorale. Almeno tre telefonate sono intercorse tra i leader dei due maggiori partiti per sbloccare la situazione. Le seconde file ripetono che nulla si fa senza l’accordo dei due capi. I quali è probabile che abbiano già trovato un’intesa ma non lo possono ancora dire.

A riguardarla dopo una decina di giorni, la bozza «prendere o lasciare» (così la definì Renzi alla direzione del Pd) sembra fatta apposta per essere modificata nei particolari ma non nella sostanza. La volpe Matteo e il volpone Silvio pare abbiano fissato limiti-capestro per poterli modificare e distribuire qualche contentino ai piccoli partiti senza – in cambio – toccare la struttura portante della riforma: gli sbarramenti, il doppio turno di coalizione e soprattutto le liste bloccate senza possibilità di esprimere preferenze.

Dalle telefonate di ieri emerge un sostanziale via libera all’innalzamento del tetto da raggiungere per evitare il ballottaggio. Dal 35 al 37-38% è uno specchietto per le allodole perché oggi in Italia è praticamente impossibile che una coalizione (non parliamo di un singolo partito) riesca soltanto ad avvicinarsi al 35% dei voti al primo turno. Se dunque il ballottaggio è di fatto inevitabile, elevare la soglia da 35 al 38% non modifica di molto la situazione.

Diverso invece è il discorso sugli sbarramenti per entrare in Parlamento. Le soglie fissate da Renzi e Berlusconi nell’incontro al Nazareno (5% nella coalizione, 8% da soli e 12% per la coalizione stessa nel suo insieme) raddoppiano i limiti previsti dal Porcellum. E sono inutilmente vessatorie anche perché non eliminano il rischio di instabilità, insito nel fatto che le coalizioni elettorali possono sciogliersi al momento di formare diversi gruppi parlamentari.

È questa la materia del contendere non tra Renzi e Berlusconi, ma tra i due leader e i «piccoli» che gravitano attorno a loro: voti che non aspirano a posizioni di leadership ma sono determinanti per raggiungere il ballottaggio e vincere.

Renzi non può penalizzare troppo Sel e la galassia della sinistra, così come Berlusconi ha bisogno assoluto di avere con sé sia il Nuovo Centrodestra sia una Lega Nord in caduta libera, per garantire la quale è indispensabile una clausola di salvaguardia territoriale. E questo spiega la furia di Angelino Alfano che ha protestato contro «l’ingiustizia di fare entrare in Parlamento chi ha preso 600mila voti (cioè il Carroccio, ndr) e tenere fuori chi ne ha presi un milione e mezzo». Ossia, nei suoi auspici, il Ncd.

Ieri sera a Ballarò Renzi ha detto che Berlusconi è a un bivio: in realtà vi si trovano entrambi. Essi devono blindare il testo per evitare slittamenti che sono sinonimi di palude in cui i «piccoli» possono sguazzare, non avendo nulla da perdere. In questo si intrecciano anche le manovre sui regolamenti: se la riforma arriva in Aula entro gennaio godrà di tempi contingentati (e dunque abbreviati) a febbraio; ma i partiti minori stanno facendo fronte comune a suon di emendamenti in commissione per allungare i tempi. A complicare le cose c’è un altro ostacolo regolamentare, ovvero il voto segreto in assemblea che potrebbe indebolire l’asse Matteo-Silvio.

I due leader hanno perciò necessità di tenere un controllo pieno sulle rispettive truppe parlamentari. Renzi ha già detto come la pensa: senza riforma la legislatura finisce. E tanti saluti a deputati e senatori Pd che l’hanno sgambettato. Un’eventualità che Berlusconi invece teme perché non è pronto e il partito (vedi il nervosismo delle seconde file per l’arrivo di Giovanni Toti ai vertici) gli potrebbe sfuggire di mano. L’antidoto è uno solo: le liste bloccate, arma in mano ai leader per controllare i «peones». Di tutto dunque si può discutere − soglie, ballottaggi, clausole territoriali − fuorché di restituire agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Questa resterà una prerogativa delle segreterie. Cioè di Matteo e Silvio.