Una volta si diceva «separati in casa». Un modo per definire una coppia che si stava sfaldando ma non era nelle condizioni di prendere ognuno la propria strada. Si può usare quest’immagine anche per il Pd di Matteo Renzi e la Cgil di Susanna Camusso? Che siano separati, è cosa chiara a tutti. Ma la sinistra è ancora la «casa» comune del principale sindacato e del primo partito italiani?
Renzi a Firenze, la Camusso a Roma. Un summit di politici e intellettuali all’ex stazione Leopolda contro una massa popolare di un milione (per la Cgil) di persone in piazza San Giovanni. Ma a sfilare per le vie della capitale non c’erano soltanto la vecchia guardia della sinistra operaia, i disoccupati, i «duri» del sindacato. C’era soprattutto la minoranza del Partito democratico ostile a Renzi; c’erano Rosy Bindi, protagonista di un plateale scontro televisivo con la renziana Debora Serracchiani; c’erano Pippo Civati e Gianni Cuperlo e Stefano Fassina, accolti dalla leader cigiellina con baci e abbracci.
Susanna Camusso che incita i suoi con slogan anti-Renzi e anti-governo alla presenza dei colonnelli dissidenti è un guanto di sfida verso il Pd. I capi della minoranza andavano cercando conferme all’eventualità di realizzare un’alternativa, a sinistra, contro la svolta «liberal» di Renzi. In questo senso, la giornata di ieri segna un passaggio forse di non ritorno: la sinistra non sarà più la «casa» comune di Pd e Cgil.
Resta nella piazza romana una delle caratteristiche della sinistra italiana: la divisione, la voglia di distinguersi a ogni costo, l’incapacità di riconoscere la reciproche differenze in vista di una unità superiore, fosse anche una unità «tattica», strumentale a un obiettivo egemonico. La piazza ha fischiato la minoranza Pd e sui social network i duri e puri della Cgil e della sinistra radicale hanno beffeggiato Civati & Co. Non è piaciuto il loro tenere il piede in due staffe, fare l’opposizione interna a Renzi senza rompere con il Pd, contestare il Jobs Act senza prendere il coraggio di non votare la fiducia sulla delega. O con noi o contro di noi, dicono alla Cgil.
Il vecchio vizio della sinistra elitaria e non inclusiva è ritornato prepotentemente a galla. Il fatto che nel corteo fossero esposti striscioni e cartelli contro la minoranza Pd significa che la contestazione era preparata dalla vigilia, non si è coagulata nella marcia. Il partito di lotta e di governo non piace. Non è più questione di appartenenze o di vecchie bandiere ideologiche: il pomo della discordia è ben individuato, si chiama Jobs Act e sarà il discrimine in base al quale la dissidenza Pd sarà valutata.
Con un’opposizione massiccia ma divisa, per Matteo Renzi paradossalmente quella di ieri potrebbe essere una giornata fortunata. La minoranza interna dovrà valutare con attenzione ogni passo: non è detto che un’eventuale scissione porti automaticamente a creare un nuovo soggetto politico coeso e rappresentativo. I più indeboliti dal confronto-scontro tra piazza e Leopolda sono proprio i Civati, i Cuperlo, i Fassina, i Gotor, i Damiano, le Bindi, che pensavano di cavalcare l’onda antirenziana del sindacato è sono stati presi a calci (metaforici) anche da coloro con cui dovrebbero costituire una specie di lista Tsipras. Finché l’opposizione interna non riesce a darsi una struttura, Renzi può continuare indisturbato nella sua strategia simil-berlusconiana: un uomo solo al comando.