Maurizio Landini si sta trasformando in un alleato di Matteo Renzi? Lo farebbe sospettare la polemica innescata ieri dal leader della Fiom che prende di mira l’intesa raggiunta nel Pd sulla riforma del lavoro. Per Landini questa convergenza sarebbe «una presa in giro». Il bersaglio, forse involontario, è la minoranza interna al Pd che aveva fatto di tutto per ottenere quelle modifiche e ora si trova nuovamente stretta tra il massimalismo del sindacato e le fughe in avanti del segretario/premier. Il quale ora ha buon gioco nel tenere a bada le frange sempre più ostili del suo partito. Ieri è sceso in campo anche Pierluigi Bersani con un sarcasmo tagliente: ha sostenuto che il patto del Nazareno serve soltanto per fare salire le azioni Mediaset in borsa.

Tenere a freno la minoranza interna è il terreno su cui si misurano sia Matteo Renzi sia Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio, anche a costo di scontentare Alfano, è disponibile a modificare il Jobs Act nonostante dalla sua minoranza interna continuino a piovere critiche sull’evanescente politica economica. Renzi ha bisogno di compattare il partito, non farsi sfuggire il controllo dei gruppi parlamentari, necessario nella strada delle riforme ma soprattutto in vista dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Un’altra frattura come quella aperta dai 101 «dissidenti» che non votarono Romano Prodi (tra i quali ci sarebbero stati numerosi fedeli renziani) sarebbe intollerabile in un partito che punta al 40 per cento dei voti.

Ma per lo stesso motivo, cioè avere al Quirinale un inquilino non sgradito, anche Berlusconi necessita di conservare gruppi compatti alla Camera e al Senato. Senza coesione, addio speranze di grazia e riabilitazione. Così il Cavaliere ha dapprima aperto alla minoranza di Raffaele Fitto, il quale è salito nell’organigramma di Forza Italia, e poi ha fatto propri alcuni degli argomenti dei detrattori interni.

Ieri, per esempio, ha cambiato idea sulla riforma elettorale. Si è improvvisamente accorto che il premio di maggioranza al partito e non alla coalizione provocherebbe distorsioni. C’è una questione istituzionale (non rispetterebbe la Costituzione) ma soprattutto politica: significherebbe sconfitta certa del centrodestra che non riesce a ritrovare l’unità. «Andare a elezioni con una maggioranza che va non alla coalizione ma al partito significa essere sconfitti, per questo ho detto di no». Non si può dire che il Cavaliere dagli occhiali neri (i problemi agli occhi non vogliono abbandonare Berlusconi) non parli chiaro.

È un’apertura all’ala interna più oltranzista, apertura rafforzata da altre dichiarazioni. Quelle, per esempio, secondo le quali non c’è ancora un successore designato nemmeno tra i fedelissimi (Toti, Gelmini, Romani, eccetera).

In Forza Italia ci sono «molti giovani bravi», riconosce il Cav, ma nessuno di essi «finora ha avuto il consenso e il trasporto» popolare necessario per diventare l’erede. Perché «il successore è scelto dalla gente», cioè da chi ha i voti, e quelli li ha ancora tutti il vecchio Silvio costretto a reggere ancora la bandiera.

Che poi la meta finale sia il Quirinale è confermato da altre frasi berlusconiane: «Mi auguro una convergenza tra centrodestra e sinistra per eleggere qualcuno che dia garanzia di saggezza ed equilibrio». Consenso e trasporto per guidare Forza Italia; saggezza ed equilibrio per fare il capo dello Stato: ecco i requisiti indicati da Berlusconi. Nomi ancora non se ne fanno (verrebbero bruciati), «ma credo che una collaborazione sia utile per il bene dell’Italia», una convergenza su «un nome di garanzia». Ovviamente sotto l’ombrello del patto del Nazareno, «che durerà perché sentiamo forte l’esigenza di governare questo Paese». E magari, anche l’esigenza di fare salire ancora il titolo Mediaset.