La prima tessera di partito era stata quella con lo scudo crociato e la scritta «Democrazia cristiana». Al governo, come dimostra l’arruolamento agli Esteri dell’ex rutelliano Paolo Gentiloni, sta imbarcando molti piddini provenienti dalla Margherita. I suffragi raccolti alle elezioni hanno proporzioni da prima repubblica, quando Dc e Pci da sole raccoglievano il 70 per cento dell’elettorato. E non c’era l’astensionismo di questi ultimi anni.

Non si può dire che Matteo Renzi voglia rifare la Dc nello spirito cristiano-popolare; di certo però l’operazione è quella di occupare la stessa posizione centrale nella politica italiana. Un grosso partito interclassista, ancorato nel centrosinistra, che come la Dc aveva due contraltari ben individuati a destra e a sinistra. Una volta c’erano il Msi (che aveva molti più voti di quanti ne raccoglievano i partitini con cui la Dc doveva formare bi, tri, quadri e penta alleanze di governo) e il Pci.

Adesso Renzi punta a ricostruire lo stesso schema. Addio bipolarismo o bipartitismo che dir si voglia: ci vuole un bel partitone democratico che conduca i giochi, e dei partiti minori a destra e sinistra che si spartiscano le minoranze litigiose e incapaci di coalizzarsi. A destra è ben piazzata la Lega Nord, ormai sempre più allineata su posizioni lepeniste, nazionaliste, ben lontane dal federalismo degli anni di Bossi, e per molti aspetti contigue alle sparate di Beppe Grillo (che perde consensi).

Dall’altra parte, la fisionomia non è ancora definita. Ma il Rottamatore si sta dando parecchio da fare per costruire una sinistra radicale. Esasperando le differenze con la sinistra radicale e la Cgil, Renzi la sta marginalizzando all’interno del Pd e quasi costringendola ad andarsene. La scissione sembra soltanto una questione di tempo. Il suo Pd ha assoluto bisogno di un’opposizione a sinistra per marcare il nuovo profilo centrale anche se non centrista. Tra due estreme così marcate, chi occupa il baricentro appare come la forza in grado di bilanciare il sistema.

Ma per consolidarsi, Renzi deve appropriarsi dei voti di Silvio Berlusconi. I voti moderati, quelli del ceto medio che ora è diventato una fascia sociale più povera, preoccupata del futuro, in cerca di stabilità, pronta a sostenere un altro leader dalla personalità forte. E disponibile a tributargli applausi quando egli si presenta in televisione. Non a caso, come già è stato sottolineato, nelle sue ultime apparizioni tv il presidente del Consiglio non ha scelto i programmi «cult» della sinistra come quelli di Santoro e Floris, ma prima è andato da Del Debbio (Retequattro) poi da Porro (vicedirettore del Giornale berlusconiano sia pure in prestito a Rai2) quindi ha trionfato da Barbara d’Urso nel pomeriggio  domenicale di Canale 5 e infine ha riscosso ancora ottimi ascolti da Lilli Gruber (La7). 

È evidente che Renzi va a pascolare nei terreni elettorali del Cavaliere. Il quale, in questa fase, è privo di armi. Il suo partito è allo sfascio, preda delle lotte tra colonnelli in cerca di un posto al sole. La sua forza economica è in calo, dopo la scoppola della sentenza Mondadori-De Benedetti, la crisi che ha colpito la pubblicità televisiva e infine la vendita coatta del 20 per cento di Mediolanum, l’unica azienda del gruppo ancora in grado di distribuire dividendi. La sua parabola politica è al tramonto senza che sia stato individuato un successore. Insomma, in questo momento il Cavaliere non ha nessuna voglia di andare al voto ed è costretto a tenere il gioco di Renzi. Il quale ha buon gioco a lusingare i moderati. Per il premier, vecchia tessera dei giovani Dc, il futuro è un ritorno al passato.