Dai e dai, un passettino sulla via delle riforme ieri è stato fatto. Metti Giorgio Napolitano che vuole vedere qualcosa di concreto prima di dare le dimissioni; aggiungi il pressing teutonico di Angela Merkel per la quale il cammino riformista italiano ha la velocità di un bradipo; mescola la tirata di orecchie di Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale; unisci la ritrovata frenesia di Matteo Renzi davanti alla crescente perdita di consensi e ai disastri che può provocare l’inerzia mentre tutto, attorno, trema. Questo miscuglio di ragioni più o meno nobili ha dato una scossa al Parlamento che ha battuto un colpo.

La commissione Affari costituzionali della Camera ha dunque approvato i primi due articoli della riforma del Senato confermando il testo di Palazzo Madama. Sancito il superamento del bicameralismo, solo la Camera darà la fiducia al governo mentre il Senato sarà formato da consiglieri regionali in rappresentanza delle autonomie territoriali. È un punto a favore di Renzi. Parallelamente nella commissione gemella del Senato ha mosso i primi passi la nuova versione del sistema elettorale con una serie di ulteriori modifiche contenute in emendamenti di Anna Finocchiaro, relatrice della riforma elettorale. Così il premier è contento due volte.

Il nuovo Italicum prevede un premio di maggioranza assegnato alla lista (non più alla coalizione) che supera il 40% dei voti, una rimodulazione delle soglie di sbarramento, maggiore elasticità per le candidature multiple dei capilista (bloccati), la possibilità di esprimere due preferenze, l’obbligo di indicare il nome del leader (candidato premier) assieme al programma elettorale. Sono elementi condivisi emersi nel dibattito di questi mesi, anche se sul premio alla lista e non alla coalizione Silvio Berlusconi mantiene ancora riserve.

Il vero ostacolo di ieri non era però il contenuto degli emendamenti, quanto una serie di mine sparpagliate sul percorso. Ostacoli posti dai nemici del Patto del Nazareno, che resta l’asse portante di questa fase politica. E i nemici sono da un lato la minoranza interna ai democratici e dall’altro la Lega. La sinistra del Pd insisteva per sottoporre il testo in via preventiva alla Corte costituzionale: passaggio irrituale ma che avrebbe eliminato molte incertezze, oppure (all’opposto) avrebbe potuto affossare senza appello la riforma. La vera questione era in realtà porre un freno al potere di veto che il Patto del Nazareno assegna al partito di Berlusconi: un potere che infastidisce i bersaniani.

Dall’altro un ordine del giorno di Calderoli prevedeva l’entrata in vigore della riforma elettorale non subito dopo l’approvazione, quanto dopo la riforma del bicameralismo.

Queste mine rischiavano di far saltare il banco. Ma il patto tra Pd e Forza Italia, difeso strenuamente dal ministro Boschi, ha retto sia alla Camera sia al Senato. La novità è costituita da una clausola di salvaguardia ipotizzata dalla Boschi, dalla Finocchiaro e anche dalla Serracchiani, vicesegretario Pd: in caso di elezioni anticipate prima della riforma del bicameralismo si andrebbe a votare con il Mattarellum (sistema applicato negli anni 90) e non con il proporzionale puro risultante dalla sentenza della Consulta. Ma su questo punto Forza Italia è contrarissima. Accanto alla clausola il ministro Boschi ha proposto di fissare una data certa per l’entrata in vigore dell’Italicum, cioè il 1º gennaio 2016.

La clausola rimane sul tappeto, non è (ancora?) stata approvata, ma non è stata motivo di rottura. Altre schermaglie si sono sviluppate su emendamenti di Rosy Bindi, ritirati o bocciati senza traumi. L’obiettivo dei «nazareni» è di arrivare a Natale con il testo approvato in commissione. In sostanza, il patto Pd-Forza Italia regge ancora agli scossoni, anche se le scorribande parlamentari della sinistra Pd e della Lega appaiono più una guerriglia tattica che una vera offensiva per bloccare il processo riformista. Si procede a piccoli passi sulla scacchiera istituzionale, si muovono con attenzione i vari pezzi per non farsi trovare spiazzati al momento cruciale. Quello di eleggere il nuovo capo dello stato.