Chi ha detto dopo lo sciopero di venerdì che «senza riforme ci condanniamo al declino»? Un politologo in vena di profezie lapalissiane? No, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, quello che a febbraio aveva promesso una riforma al mese e a Natale è ancora fermo a quota zero. E chi ha detto che «il futuro appartiene a chi ha il coraggio di cambiare»? Un Vendola in cerca di nuovi slogan? No, sempre Renzi, il premier armato unicamente di buone intenzioni. E chi ha aggiunto che «ottimismo è non lasciare il futuro ai nostri avversari»? Ancora lui, Renzi versione intellettuale con dotta citazione di Dietrich Bonhoeffer.
Fiumi di parole mentre la situazione gli sfugge sempre più di mano. Sul fronte internazionale, alle sferzate del presidente dell’eurocommissione Juncker si sono sommate quelle del numero uno della Banca centrale di Germania, Jens Weidmann, il quale ha detto chiaro e tondo che non si fida dell’Italia se continua a volersi indebitare. Brutto colpo per un Paese che sarebbe presidente di turno dell’Unione, anche se nessuno se n’è accorto.
Sul fronte interno va forse peggio. Renzi appare sempre meno in grado di gestire la minoranza interna al partito, che ha trasformato il cammino delle riforme istituzionali in un campo di mine. Pippo Civati ha praticamente annunciato la prossima scissione del Pd («Se Renzi si presenta alle elezioni anticipate con il Jobs Act e le cose che sta dicendo, non saremo candidati con lui»). I deputati bersaniani hanno chiesto di essere sostituiti nella commissione Affari costituzionali perché non vogliono votare le riforme secondo il Patto del Nazareno, ma al tempo stesso non vogliono mettere in difficoltà il partito con il loro dissenso. Litigi, correnti, scissioni: proprio quello che Matteo Renzi intendeva rottamare. D’altra parte l’inchiesta su Mafia capitale sta confermando che il Pd non ha affatto cancellato i metodi affaristici e corruttivi di certa vecchia politica.
Ma a Renzi non basta qualche battutina all’udienza vaticana con papa Francesco per riguadagnare visibilità. Oggi si riunisce l’assemblea nazionale del Pd; ai mille delegati il segretario-premier chiederà un mandato chiaro per i prossimi due mesi e lo otterrà, ma la minoranza in Parlamento è sovra-rappresentata rispetto al peso effettivo che essa oggi ha nel partito; quindi la corsa a ostacoli per Renzi continuerà come prima. Sullo sfondo resta il braccio di ferro verso l’elezione del nuovo capo dello stato.
Il sospetto di civatiani e bersaniani è che il capo del governo voglia davvero andare al voto in primavera, riforme o no, Italicum o no. È l’arma della disperazione con cui Renzi minaccia i ribelli: rientrate nei ranghi oppure si voterà e voi resterete a casa. Proprio ieri è stato deciso un “election day” per amministrative e regionali, che ci vuole ad aggiungerci Camera e Senato?
Il fatto è che Renzi ha sottovalutato la crisi economica, lo stesso errore di un premier che risponde al nome di Silvio Berlusconi, e con l’aggiunta dell’inesperienza e dell’arroganza sta isolando l’Italia nel contesto europeo. Avrà anche piazzato la Mogherini alla testa della diplomazia Ue, ma i rapporti con i partner sono in costante peggioramento. In più tra un mese lascerà colui che le cancellerie continentali considerano il referente di fiducia, cioè Giorgio Napolitano, e l’incognita della successione complica ulteriormente le cose.
Con le citazioni colte e le buone intenzioni sparse a piene mani, Renzi tenta di nascondere la sconfitta con un’abile gestione mediatica. L’obiettivo potrebbe essere proprio quello di votare al più presto scaricando ogni colpa sulla “irresponsabile minoranza scissionista”. Sulla sua strada potrebbe trovare ancora Berlusconi, che in primavera terminerà i servizi sociali e non disdegnerà l’occasione della rivincita. Anche ieri ha ripetuto: con i moderati uniti non ce ne sarà per nessuno.