È il 30 novembre scorso quando le cronache parlamentari registrano una curiosa dichiarazione del senatore di Forza Italia Augusto Minzolini a proposito della corsa al Quirinale. Sono i giorni in cui Silvio Berlusconi lancia il nome di Giuliano Amato verso il Colle. Ma l’ex direttore del Tg1, che era un berlusconiano di ferro mentre ora sta fra i «ribelli» azzurri, chiede «una figura di garanzia, dal profilo forte e autorevole, che voglia come primo atto completare le riforme». Gli osservatori più attenti notano che sono parole identiche a quelle usate dalla minoranza Pd, ovvero la fronda ostile al segretario Matteo Renzi.

Con il senno di poi, cioè dopo che ieri la Repubblica ha scritto che Minzolini starebbe convincendo Silvio Berlusconi a votare Romano Prodi per il dopo-Napolitano, l’identikit minzoliniano corrisponde fin troppo bene a quello del Professore: amico della minoranza democratica e da essa sostenuto, «profilo forte e autorevole» perché in grado di tenere testa al premier Renzi, «figura di garanzia» perché da tempo lontano dalle lotte interne al Pd. Un partito al quale l’Ulivo prodiano aveva fatto da levatrice.

Ma qualcuno, dal fine fiuto politico, aveva annusato subito che le parole di Minzolini di fine novembre potevano celare qualche manovra riservatissima. Forse addirittura un avvicinamento tra l’ex Cavaliere e il Professore, nemici acerrimi in campagna elettorale (Prodi è stato l’unico a sconfiggere Berlusconi alle elezioni, e l’ha fatto due volte) e tuttavia oggi probabilmente disposti a «scurdarse ‘o passato» per imbrigliare Renzi. Tanto più che l’ex capo dell’Ulivo è contrario, come Berlusconi, alle sanzioni europee contro la Russia dell’amico Vladimir Putin: le ha definite «un suicidio collettivo».

Chi aveva subodorato i movimenti sotterranei deve aver avvertito Renzi. Che si è precipitato a sondare il terreno convocando Romano Prodi a Palazzo Chigi. L’incontro, durato quasi due ore, è avvenuto a metà dicembre, un paio di settimane dopo le parole di Minzolini tutte da interpretare. Il quale Minzolini, commentando a caldo il vertice tra premier ed ex-premier, aveva detto che a Berlusconi non importa il nome di chi votare per il Quirinale, al punto che gli andrebbe bene «anche Massimo D’Alema»: quello che conta per l’ex Cavaliere è essere della partita. Ma se «non importa il nome», sulla scheda potrebbe essere scritto anche il nome di Prodi.

Insomma, il senatore azzurro dissidente (ma non troppo) avvisava Renzi di non tirare troppo la corda. Votare Prodi, chiosava Minzolini, «politicamente sarebbe una mossa azzeccata, chi meglio di lui può garantire Berlusconi e l’opposizione! Se così sarà, i problemi li avrà Renzi». In altre parole, la tentazione di Berlusconi di non fare muro contro il Professore bolognese è nell’aria da tempo. 

Prodi è corteggiato da Renzi perché ciò gli consente di ammorbidire i toni del confronto interno, e pure da Berlusconi che deve tutelare un doppio interesse: restare determinante nell’elezione del nuovo capo dello Stato, e mandare al Colle una personalità che non sia un semplice portaordini di Renzi, un esecutore accondiscendente. In sostanza, uno che non sciolga le Camere appena il Rottamatore dia il segnale.

Una nota di Forza Italia ieri ha smentito il retroscena di Repubblica secondo cui Berlusconi non porrebbe veti al nome di Prodi. Si tratterebbe di «ricostruzioni a dir poco fantasiose che disegnano scenari mai ipotizzati» dal Cavaliere. L’articolo sarebbe «frutto esclusivo dell’immaginazione dell’autore e non rappresenta in alcun modo la realtà». Smentita doverosa per non bruciare le eventuali possibilità prodiane.