Il voto di ieri sulla riforma elettorale è il primo vero successo di Matteo Renzi da presidente del Consiglio e leader del Pd. È atteso al varco domani, quando presenterà in Parlamento il Jobs Act, ma già ieri il banco di prova era impegnativo. Ci andavano di mezzo l’accordo con Silvio Berlusconi sulla nuova legge – e quindi la caratura di Renzi come segretario del partito – e l’avanzata del processo riformatore, cioè la sua credibilità di premier.
Non era cominciata bene la giornata per Renzi. La frenesia dei primi giorni è già svanita. Il balletto sui tagli fiscali (Irpef o Irap? lavoratori o imprese? tutto agli uni e niente agli altri, oppure un po’ a me e un po’ a te secondo l’antica tradizione democristiana?) non giova al premier, che 15 giorni fa a Treviso aveva promesso sgravi per le imprese mentre oggi si è convertito all’appesantimento delle buste paga, assai più redditizio al momento del voto.
Ieri era anche l’ultimo giorno per spedire a Bruxelles la lettera con l’impegno a saldare i conti in sospeso della pubblica amministrazione, per evitare una multa europea e la procedura di infrazione. Il governo delle belle statuine sembrava la fotocopia dell’esecutivo Letta: impantanato. In più, a Pontassieve il candidato renziano per le primarie a sindaco ha perso per pochissimi voti. Come quando ad Arcore andò male al candidato berlusconiano. Oltre alla sconfitta, quello che brucia a Renzi è vedere molto ridimensionati i numeri della propria leadership.
Sempre ieri approdava finalmente nell’aula di Montecitorio la riforma elettorale. Renzi era stretto tra la parola data a Berlusconi e le pressioni di una forte minoranza del Partito democratico che voleva a ogni costo la tutela per legge della presenza parlamentare femminile. Di bianco vestite, il colore neutro della purezza (forse perduta), molte deputate hanno dato battaglia per ottenere le quote rosa promesse da Renzi.
Per l’intera giornata a Montecitorio è andato in scena il balletto dei rinvii, degli slittamenti, della disperata ricerca di una mediazione.
I problemi veri sono tutti dentro il Pd, dove la minoranza di civatian-bersanian-cuperliani voleva che il vertice del gruppo esprimesse con chiarezza una posizione: sì o no alle quote rosa. Per Renzi, il «sì» equivaleva a cedere alla minoranza; il «no», all’opposto, significava sancire la spaccatura del partito e incrinare il rapporto con Forza Italia, visto che l’impianto originale dell’Italicum non prevedeva l’alternanza maschi-femmine nella compilazione delle liste né nei nomi dei capilista.
Dopo un’estenuante trattativa, si è trovata una scappatoia: il governo si rimetteva alla volontà dell’Aula, mentre una pattuglia di deputati del centrodestra (Forza Italia, Fdi, Ncd e Udc) chiedeva il voto segreto.
A quel punto era sufficiente che Renzi e Berlusconi dimostrassero il controllo sui rispettivi gruppi parlamentari per muovere il primo passo verso l’approvazione dell’Italicum. Per Renzi si profilava il pericolo di un’ulteriore incognita, cioè il voto dei grillini, contrari alle quote rosa.
L’esito dello scrutinio segreto ha confermato che l’asse Renzi-Berlusconi è solido e resiste: con 335 voti contro 227 le quote rosa non sono diventate legge, anche se il segretario Pd ha giurato e spergiurato che le applicherà rigorosamente nella composizione delle sue liste. Assieme a questa bocciatura sono stati sciolti anche altri nodi rimasti finora insoluti, cioè la delega al governo per ridisegnare i nuovi collegi e le multicandidature (ne saranno ammesse al massimo 8, per la grande gioia dei partiti minori, Alfano in testa).
Ora è prevedibile uno psicodramma nel Pd, ma Renzi ha dimostrato di avere i numeri ancora dalla sua parte. Come pegno pagherà un ulteriore allungamento dei tempi, visto che l’esame della riforma salta di un’altra settimana. Un ulteriore rallentamento per un progetto che nei piani del rottamatore doveva diventare legge entro febbraio.