Togliamo le mani in tasca nel discorso sulla fiducia, il rimpastino tra ministri (e ministre), la passerella a Treviso e l’adrenalina dei novizi. In una settimana di governo, in che cosa si è vista l’accelerazione che Matteo Renzi avrebbe imposto alla politica italiana? Il sindaco di Firenze ha conquistato Palazzo Chigi promettendo rapidità, cambio di passo, decisioni veloci e rivoluzionarie, novità di stile. Ebbene, che fine ha fatto tutto ciò? È vero che una settimana non è sufficiente per un giudizio compiuto; tuttavia gli inizi di Renzi premier non sono promettenti.



L’uomo nuovo, il rottamatore della vecchia politica ha fatto propri i maggiori difetti della vecchia politica. Ha formato un governo con la medesima maggioranza del precedente ma incredibilmente con meno voti. Invece che un governo rapido, ha fatto passare quasi una settimana per mediare tra i suoi piccoli quanto indispensabili alleati. Dopo aver giurato, ha impiegato altrettanto tempo per scegliere viceministri e sottosegretari, accettando anche nomi assai discutibili senza battere ciglio, nomi ispirati a logiche tutt’altro che innovative. Si è presentato in Parlamento secondo una tecnica consolidata, quella di ogni campagna elettorale, parlando il linguaggio della politica classica, contrario a quanto aveva assicurato fino al giorno prima: promesse, annunci, aspettative di cambiamento prive di seguito immediato.



Il primo provvedimento è stato la reiterazione di un decreto del precedente governo, il salva-Roma; il secondo una stangatina fiscale che arriverà dove nessun governo di sinistra era mai giunto, cioè a tassare gli immobili ecclesiastici. La prima uscita dopo la fiducia è stata nel Nordest, a Treviso, città amministrata da un sindaco dei suoi, dove ha promesso che consentirà agli amministratori locali di sforare il patto di stabilità. Aveva garantito che la sua azione sarebbe stata un foglio Excel: obiettivi, tempi, responsabilità. Di quel foglio, invece, non c’è traccia.

Ma incombe soprattutto un’ambiguità di fondo: il governo Renzi si sorregge con l’appoggio di tanti piccoli partiti che compongono una frastagliata maggioranza; eppure il vero accordo è con un partito di opposizione, Forza Italia, la sponda necessaria per varare le riforme. Tra le quali è prevista la nuova legge elettorale disegnata su misura per eliminare i piccoli partiti dell’attuale maggioranza. Renzi ha detto di rendersi conto che chiedere ai senatori di abolire il Senato è come chiedere al tacchino di organizzare il pranzo di Natale. Ma lo stesso vale per gli alleati di governo: potranno mai votare una legge che li condanna all’estinzione? Tra l’altro, quando fu eletto segretario sull’onda trionfale delle primarie, Renzi aveva annunciato che a febbraio il nuovo sistema elettorale sarebbe stato legge. Siamo a marzo e il dibattito in aula è appena iniziato.



Insomma, l’iperattivo Renzi sta cominciando ad assaggiare quanto sa di sale il pane fuori dalla Toscana. I tempi della politica non sono proprio quelli di un sindaco trentenne esuberante e smisuratamente ambizioso. La legge elettorale arriva in Parlamento martedì. Quella sarà l’occasione in cui il presidente del Consiglio potrà riscattare la sua falsa partenza.

Ma i nodi da sciogliere sono ancora parecchi. Alfano, Udc e gli altri «piccoli» vogliono modifiche che Forza Italia non ha intenzione di concedere. E soprattutto resta il paradosso di un sistema che potrebbe mandare al ballottaggio della Camera partiti diversi da quelli che approderebbero al secondo turno del Senato, provocando così un’ingovernabilità peggiore dell’attuale. Il sistema più sicuro per aggirare questi ostacoli è anticipare la riforma del Senato rendendolo non più elettivo (come peraltro prevede l’accordo Renzi-Berlusconi), ma tale anticipo richiede tempi lunghi e priverebbe Renzi dell’arma più efficace per tenere unita la sua risicata maggioranza: quella del voto. Per il premier è tempo di tagliare i primi nodi, e al momento l’incertezza regna ancora sovrana.