La fiducia di ieri del Senato al disegno di legge che riforma le province è la sintesi di tutte le contraddizioni in cui si dibatte il governo Renzi. Per il premier il risultato è positivo perché così può sbandierare un successo nel lungo e accidentato cammino verso le riforme istituzionali, il secondo dopo l’approvazione (in prima lettura) della nuova legge elettorale. Anche la legge Delrio sulle province dovrà affrontare un ulteriore passaggio parlamentare alla Camera: probabile un’altra fiducia.

Esaurito l’effetto propagandistico, archiviate le innumerevoli foto della ministra Boschi, restano i problemi. Renzi vuole cambiare l’Italia «assieme», cioè coinvolgendo il centrodestra. Tuttavia ha imposto le nuove province con un voto di fiducia, che quindi escludeva l’appoggio di Forza Italia pena il formarsi di una nuova maggioranza. Questa riedizione della «politica dei due forni» di andreottiana memoria è un nodo che con il tempo si complicherà. Renzi vuole il sostegno di Berlusconi o preferisce procedere a colpi di maggioranza? Vuole includere anche i partiti con grande seguito popolare-elettorale, oppure soltanto portare a casa risultati a effetto per consolidare la sua leadership? Renzi ha spodestato Letta proprio sulla diversa idea di rapporto con il centrodestra, che doveva essere coinvolto nelle grandi scelte per cambiare il Paese; tuttavia alla prova dei fatti il capo del governo ha preferito ricorrere al vecchio e sicuro sistema del voto di fiducia. Che cosa farà con l’Italicum? E con il voto del Senato per abolire il Senato?

Altra questione. La fiducia è stata messa perché durante la discussione a Palazzo Madama la maggioranza che sostiene il governo è andata sotto più di una volta. Il provvedimento è un disegno di legge, non un decreto che rischiava di decadere; dunque non c’era urgenza, se non quella di incamerare un voto a favore. Il governo ha detto di aver accelerato l’iter di approvazione per evitare che il prossimo 25 maggio si dovesse votare per le province: sono 52 (quasi metà del totale) quelle in scadenza. Ma i risparmi sono modesti, perché le urne sono già aperte ovunque per le europee, e i nuovi enti locali sarebbero comunque stati presto commissariati al pari delle altre amministrazioni ancora in sella. Di fatto si risparmia sulla spesa elettorale e le indennità di 3000 amministratori: 100 milioni di euro secondo la Corte dei conti, mentre Delrio calcola che si arrivi a due miliardi.

Ma la domanda da porsi, oltre a quella sull’effettivo risparmio, è un’altra: Renzi controlla davvero la sua maggioranza di montiani, alfaniani, popolari e soprattutto democratici con il mal di pancia? I numeri sembrano dargli ragione, 160 voti a favore e 133 contrari (erano stati rispettivamente 169 e 139 nell’occasione della fiducia per l’insediamento del governo), ma soltanto perché un voto sfavorevole avrebbe mandato a casa il governo. 

A poco più di un mese dal giuramento, il premier fiorentino è già in grave difficoltà. A ciò ieri si è aggiunta la strigliata dal Quirinale sulla spending review e la politica degli annunci cui non fa seguito una «discussione seria».

C’è poi da chiedersi quale sia la reale portata delle riforme renziane. Sono cambiamenti veri, radicali, apportatori di efficienza amministrativa e risparmio di denaro pubblico, oppure modifiche di facciata, una mano di bianco sui muri dei municipi? Finora gli enti periferici erano due: province e comuni. La legge Delrio non taglia, ma aggiunge città metropolitane e unioni di comuni. Le province non vengono cancellate: per fare ciò è necessario modificare il titolo V della Cstituzione. La burocrazia non sembra eliminata, anzi. Spariscono giunte e consigli provinciali, ma arrivano commissari, sindaci e consigli metropolitani oltre che le conferenze metropolitane; in più sarà aumentato il numero di consiglieri nei comuni fino a 3mila abitanti: e questi ultimi sono tutti incarichi retribuiti a gettone o indennità. Insomma, dopo il voto di ieri più ombre che luci sulle capacità riformatrici del governo Renzi.