Silvio Berlusconi al Quirinale. Non come padrone di casa, cosa che ha sognato e sperato fino all’anno scorso, ma da questuante. Con il cappello in mano, come secondo lui dorebbero fare i pubblici ministeri quando si rivolgono al gip. Bussare umilmente, domandare udienza, chiedere permesso e caricarsi il rischio di ricevere magari non una porta in faccia ma un atteggiamento di degnazione, di superiorità, di sopportazione formale.

Il Cavaliere disarcionato si è sottoposto a queste forche caudine. Ha chiesto un faccia a faccia che gli è stato accordato: e questa è l’altra faccia della notizia, benché le porte del Quirinale gli si fossero già aperte durante le consultazioni presidenziali sul dopo-Letta. Dopo Renzi, anche Napolitano ha riconosciuto all’ex premier il rango di interlocutore presidenziale, nonostante la condanna definitiva, nonostante la perdita dello status di parlamentare, nonostante l’approssimarsi del pronunciamento del tribunale di sorveglianza di Milano che entro una decina di giorni deciderà il futuro del Cav: arresti domiciliari o servizi sociali. E nonostante mesi di campagna antiquirinalizia a corrente alternata, ora ritmata ora moderata, in cui il numero 1 di Forza Italia ha talvolta fallito nel tenere a bada i suoi pasdaran. A cominciare da Daniela Santanché, che poche settimane fa ha promosso una raccolta di firme per spingere il presidente a concedere la grazia al caro leader. Una campagna che Silvio ha condannato senza remore.

Ieri pomeriggio, dunque, Berlusconi è salito al Colle, da solo, senza intermediari né pacieri. Ha fatto presente la paradossale situazione in cui si trova: in questo momento, con la fronda interna al Pd che fa traballare Renzi e con il crescere del fronte contrario alle radicali riforme istituzionali per le quali il capo del governo preme sull’acceleratore, di fatto è Forza Italia il vero puntello dell’esecutivo. Palazzo Chigi può contare più su Berlusconi che su larghe fette di Partito democratico. Il Cav l’ha ripetuto anche ieri: gli azzurri non hanno intenzione di venir meno alle garanzie promesse a Renzi, secondo un percorso riformatore bipartisan più volte auspicato dallo stesso Napolitano. Io non tradisco i patti, avrebbe detto Berlusconi, che comunque non ha nascosto le difficoltà interne ad appoggiare un’intesa che la sinistra – non lui – vorrebbe modificare profondamente.

Ma questo sostegno è messo in pericolo da quello che capiterà dopo il 10 aprile. Non per cattiva volontà, ma per circostanze oggettive: privato della libertà, Berlusconi diventerà un leader azzoppato, che non potrà esprimersi in pubblico e tantomeno – per la prima volta negli ultimi 20 anni – partecipare alla campagna elettorale per le europee e le amministrative. 

I sondaggi dicono che Forza Italia è stabilmente sotto i grillini (i sondaggi più pessimistici stimano un deludente 15%), e questo non è un viatico per le riforme volute anche da Napolitano. 

Che cosa avrà dunque questuato Berlusconi? Garanzie. Per il partito e per sé. Che, tradotto, significano due cose: o la grazia del presidente o l’indulto del Parlamento. Entrambe prospettive incerte e dai tempi non brevi. Il Colle non ha commentato il faccia a faccia, si è limitato a precisare chi dei due ha domandato l’incontro. Cioè l’uomo che finora non ha dovuto chiedere mai.