Da bambini al culmine delle sgridate il papà urlava: «Ma che cos’hai in quella testa?». Domanda evidentemente retorica alla quale nessuno sapeva come rispondere. Oggi è inutile chiedersi che cos’hanno in zucca dei sedicenti tifosi che usano lo stadio come pretesto per girare armati, con il colpo in canna, e sparare al tifoso avversario. Perché la loro testa è drammaticamente vuota. Piuttosto vale la pena domandarsi che cos’hanno nel cuore. Che cosa attendono, che cosa chiedono alla vita, perché si accontentano di un’esistenza fatta di violenza, di rischio, di sfide vuote che chiedono altre sfide, altra violenza, altro rischio, sempre più adrenalina spesso alimentata dall’alcol, in una spirale che non ha fine. L’infinito dell’assurdo.
Allo stadio minacciare, scontrarsi, ferire. Nelle loro cronache, sui giornali o in tv, i giornalisti applicano spesso metafore belliche al calcio: il tiro è un missile, l’attaccante è un bomber che scaglia cannonate, i difensori scavano trincee, e la squadra rivale rappresenta in realtà una falange di nemici. Forse bisognerebbe moderarsi, ma non è questo il punto. Il dramma è quando la realtà supera la metafora, il linguaggio figurato si trasforma improvvisamente in una fotografia di fatti tragici di guerriglia urbana. La sparatoria in cui è stato ridotto in fin di vita un tifoso del Napoli non c’entra con la partita di ieri sera, dicono le forze dell’ordine. Ma da quelle pallottole sono esplosi scontri di piazza, tifosi contro tifosi, tifosi contro agenti, in un crescendo senza senso di violenza selvaggia. E poi i capi degli ultras che negoziano se fare giocare la gara o no, in un braccio di ferro in cui conta soltanto la legge del più forte, e non quella della convivenza civile.
Ogni azione di ogni uomo contiene una domanda di significato, anche se sepolta e inespressa. A volte esplode nell’assenza di risposta, come il virus dell’herpes che rimane latente e si manifesta d’improvviso a deturpare la faccia. Chi prende sul serio le domande di questa gioventù disperata e le loro azioni folli? Diceva Chesterton che «l’errore è una verità impazzita». Il desiderio di divertirsi, di misurarsi, di affermarsi ed essere riconosciuti nel proprio valore, subisce una metamorfosi autodistruttiva. E ora chi si piegherà su di loro, avendo il coraggio di sfidare l’ipocrisia di un Paese che si divide su tutto, litiga senza costruire, e quando succede il fattaccio si limita a puntare il dito accusatore senza chiedersi qual è la propria parte di responsabilità?
C’è un modo molto semplice di prendere sul serio le pulsioni impazzite di certe tifoserie. A certe azioni devono corrispondere conseguenze chiare e certe. I disperati della domenica, gli sfaccendati a caccia di emozioni forti, i professionisti vigliacchi del teppismo urbano sempre in cerca di un poliziotto da sfidare, i piccoli boss che usano il calcio per salire la scala delle gerarchie criminali, devono sapere che i loro atti li seguiranno. L’assurdità delle loro azioni è talmente enorme da meritare una risposta altrettanto clamorosa.