Ogni riccio un capriccio, cantava Domenico Modugno. Ogni passo un intoppo, gli fa eco oggi Maria Elena Boschi, la cirenea che per conto di Matteo Renzi porta il peso della trattativa sulle riforme istituzionali. Nemmeno il tempo di mostrarsi sorridente su tutti i tg per l’intesa raggiunta sul nuovo Senato (composizione ridotta, rappresentanza delle regioni, fine del bicameralismo, snellimento delle procedure legislative), e la giovane ministra deve maneggiare una nuova bomba a orologeria sull’immunità del Senato 2.0. Inizialmente non prevista, l’immunità è stata reintrodotta da emendamenti concordati tra Pd, Forza Italia e Lega.
La polemica non si è fatta attendere, alimentata dalle frange interne al Pd più ostili a Renzi e dal partito giustizialista. L’immunità per i senatori sarebbe riapparsa per volontà di Forza Italia come estremo salvacondotto per Silvio Berlusconi, o quantomeno come vessillo di un partito la cui ragione di esistenza è il conflitto di interessi, la guerra alla magistratura, il tentativo di sottrarsi alla legge. Le parole del senatore grillino Nicola Morra non lasciano dubbi: «Questo emendamento nasce dall’imposizione di FI e di Silvio, perché questo è da sempre l’obiettivo dichiarato di chi non accetta trasparenza e controlli».
Meno rozzo e più articolato è il ragionamento di Pippo Civati, leader della minoranza interna al Pd, ma la sostanza non cambia: «L’immunità per i senatori comporterebbe che un sindaco nei confronti del quale si procedesse per fatti commessi durante il suo mandato amministrativo (tristemente noti) potrebbe usufruire, in quanto senatore, delle immunità di cui all’articolo 68 (commi 2 e 3). Non proprio un aiuto al contrasto ai numerosi episodi di corruzione cui purtroppo assistiamo (anche) a livello locale». Qui la questione non è di partito, perché l’ultimo sindaco di una grande città coinvolto in scandali di tangenti è proprio un democratico, il veneziano Giorgio Orsoni. Nelle parole di Civati immunità equivale a intrallazzo e non è un’esclusiva dei berlusconiani.
Avendo la coda di paglia (gli emendamenti sull’immunità sono dei relatori, quindi anche suoi), il leghista Roberto Calderoli fa retromarcia e addirittura propone di fare piazza pulita: se non va bene per i senatori, togliamola anche ai deputati. Tutti coloro che siedono in Parlamento devono essere trattati come comuni cittadini. Sarebbe un regalo al fronte manettaro, ai nuovi tagliatori di teste: grillini, leghisti, fan di Marco Travaglio e settori più arrabbiati della magistratura.
L’immunità ha un valore preciso: sottrarre i politici ai ricatti. L’ultima parola sul destino di un parlamentare viene decisa dal Parlamento stesso, non dalla magistratura. Il motivo è semplice: visto che, fino a prova contraria, in Italia la sovranità spetta al popolo attraverso i suoi rappresentanti liberamente eletti, costoro mantengono una sorta di diritto all’autodeterminazione. È uno dei tanti contrappesi che regolano il difficile equilibrio tra poteri e istituzioni.
Si afferma il principio che non comandano le toghe, cui spetta un potere di controllo, ma i rappresentanti eletti dal popolo. I quali, nel 1993, davanti alla valanga di Mani pulite, abdicarono in parte a questo diritto dimostrando la subalternità verso la magistratura.
La bozza custodita dalle mani di Maria Elena Boschi può essere messa a punto, calibrata, ritoccata, ma riafferma quel principio. I nuovi senatori non saranno eletti direttamente dal popolo come i deputati, ma da altri rappresentanti popolari (consigli regionali e sindaci), non conquisteranno un potere costituzionale in virtù di una laurea in giurisprudenza seguita da un concorso pubblico. Ma il dibattito accesosi ieri dimostra che la giustizia in Italia resta un nervo scoperto, anche con un Silvio Berlusconi sostanzialmente fuori gioco. Anzi, oggi che nelle inchieste finiscono tutti, compresi coloro che per decenni hanno issato la bandiera della «diversità morale», la giustizia − non l’anagrafe o le idee riformiste − viene riproposta come il discrimine tra politica vecchia e nuova.