A pensarci bene, il paradosso è di quelli grossi. I cardini del programma di governo che Silvio Berlusconi tentò di applicare, senza riuscirci, ora sono diventati gli obiettivi principali dell’esecutivo di Matteo Renzi. L’elenco è sostanzioso, ma basterà fare un paio di esempi. Si parte dal pacchetto giustizia che il premier, per dire il vero, sostiene con qualche fatica: esso prevede, tra l’altro, un giro di vite sulle intercettazioni (il guardasigilli Andrea Orlando preferisce definirle come «norme sulla privacy», e non ha torto) e l’introduzione della responsabilità civile per i giudici. Siamo in attesa di verificare se i giornali che per mesi si scagliarono a colpi di post-it gialli contro il «decreto bavaglio» targato Berlusconi faranno altrettanto con il pacchetto Orlando.

Si prosegue poi con il braccio di ferro in Europa. Il Cavaliere aveva tentato in ogni modo di derogare al patto di stabilità, di ottenere rinvii per il pareggio di bilancio e di scorporare dal calcolo del deficit le spese per investimenti in grandi opere: tutte cose in cui ora è impegnatissimo Renzi, peraltro con gli stessi risultati del leader del centrodestra, cioè zero. Aggiungiamo che Berlusconi rimane l’interlocutore privilegiato del premier per la partita delle riforme, nonostante gli spintoni di Grillo che cerca di accreditarsi come sponda più autorevole e affidabile mostrando di abbandonare l’imprevedibilità che finora ha caratterizzato il Movimento 5 Stelle.

Insomma, per Forza Italia potrebbe essere un periodo di bonaccia, di navigazione relativamente tranquilla. E invece le divisioni interne si accentuano sempre più. Invano Berlusconi invita all’unità, un’esortazione che è rivolta non soltanto a quanti hanno lasciato il partito (alfaniani e popolari) e agli alleati di un tempo (Udc e Lega Nord), ma soprattutto all’interno. I pasdaran come Augusto Minzolini insistono a volere ancora un Senato eletto direttamente dal popolo e non indirettamente dagli amministratori locali, posizione che ha un certo seguito negli azzurri ma che è stata accantonata dal patto del Nazareno. Frange crescenti di Forza Italia, magari anche per regolare conti interni, sono tentate di seguire l’onda giustizialista e abbandonare il garantismo che è sempre stato una caratteristica del centrodestra italiano.

Resta inoltre il nodo di Fitto, il cui malessere non accenna a placarsi perché alla messe di preferenze europee non corrisponde un adeguato posizionamento all’interno del partito. Né arrivano segnali di tregua da Alfano e Casini, che non accennano a nessun movimento che possa preludere a nuove convergenze con Forza Italia. Ieri si è rivisto perfino Gianfranco Fini dopo un lungo silenzio che forse avrebbe fatto meglio a mantenere, visto che ha convocato a Roma un’assemblea «movimentista» per rilanciare un’iniziativa politica fuori dal Parlamento, e l’ha fatto riempiendo soltanto a metà una sala che poteva contenere 900 persone. 

Quei 400 erano tutti ex missini ed ex aderenti di Futuro e libertà che però hanno sottolineato di essere presenti soltanto per vicinanza a un vecchio amico.

Ex alleati a parte, Berlusconi definisce quelle interne «divisioni fisiologiche», tutto nella normalità. Ma forse è lui stesso ad alimentarle per tenere Matteo Renzi sulla corda. Conviene non lasciare troppo tranquillo il premier, meglio fargli soffrire i passaggi parlamentari sulle riforme. Magari per poter barattare qualche salvacondotto giudiziario ora che si avvicina pericolosamente l’appello del processo Ruby (sentenza di secondo grado il 18 luglio, ultima parola della Cassazione probabilmente entro fine anno).