Che cosa ci si guadagna a fare il cannibale, a rosicchiare il consenso degli alleati e a umiliare le minoranze interne, come ha fatto Matteo Renzi con la vittoriosa campagna elettorale delle europee? Semplice. Ci si complica la vita. Perché ci si ritrova tutti contro. Dieci giorni dopo il voto del 25 maggio, per il premier superstar la ricreazione è già finita. Ha fatto appena in tempo a sfilare il 2 giugno davanti ai fotografi, a firmare autografi e scattare selfie tra la folla, e ad affacciarsi in maglietta dalle finestre di Palazzo Chigi per raccogliere gli osanna dal popolo. La propaganda è una cosa, i fatti un’altra.

E i fatti sono che l’Europa ha risparmiato a Renzi una solenne bocciatura soltanto per non indebolirlo troppo alla vigilia del semestre di presidenza italiana: ma il giudizio negativo sulle mancate coperture finanziarie è chiaro. Tant’è vero che il governo sta già studiando nuove tasse. Ma Renzi deve preoccuparsi anche sul fronte interno. Perché le tanto decantate riforme istituzionali languono. Dovevano essere il suo marchio di fabbrica, la principale ragione che l’ha portato precipitosamente a Palazzo Chigi. Il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi è stato il primo suggello alla sua presunta capacità riformista, e l’Italicum il primo coniglio cavato dal cilindro.  E non dimentichiamo che il ministro delle Riforme è la fatina Maria Elena Boschi, una delle poche donne del Pd «apprezzate» dal Cavaliere.

Proprio questa architettura, che sembrava blindata da un accordo bipartisan secondo i suggerimenti del capo dello stato, è in pericolo. Lo scoglio è il nuovo Senato. Inizialmente Renzi voleva cancellarlo, poi si è accontentato di depotenziarlo togliendogli la facoltà di votare le leggi e facendolo eleggere non più dal popolo ma dai rappresentanti degli enti locali. Alla Camera il sistema elettorale era costruito sul ballottaggio tra le due forze principali. Ma ora la seconda forza sono i 5 Stelle, e il centrodestra può illudersi di recuperare soltanto se riesce a calamitare tutti i vecchi alleati, dagli alfaniani alla Lega ai Fratelli d’Italia, mentre ora rischia paradossalmente di perdere un altro pezzo, cioè Raffaele Fitto.

Davvero Renzi credeva che il Cav, in queste condizioni, non avrebbe battuto ciglio per mantenere fede a un patto suicida? Ieri è arrivata un’altra batosta sul premier: Forza Italia si è schierata con la minoranza Pd che sostiene senza cedimenti la bozza di riforme di Vannino Chiti e si oppone all’ipotesi governativa di copiare il modello francese per il Senato. Il termine per presentare gli emendamenti sulle riforme si è chiuso con una débacle per l’esecutivo: sono 5200 gli emendamenti presentati, di cui 3800 della Lega, mentre Forza Italia, attraverso il capogruppo Paolo Romani, ha sbarrato le porte al modello francese, cioè un Senato eletto da amministratori locali integrati dai deputati del territorio. «Inaccettabile», ha tagliato corto.

In questo momento, insomma, non c’è una maggioranza in Parlamento per fare le riforme nonostante l’ottimismo del premier. Il quale, come è evidente, vuole fare sempre l’asso pigliatutto. Infatti chiedere a Forza Italia di convergere sul modello francese significa pretendere che faccia una seconda volta harakiri: con le regioni e gli enti territoriali saldamente controllati dalla sinistra, il centrodestra dovrebbe sancire la definitiva autoeliminazione dalla stanza dei bottoni.

La presunzione gioca brutti scherzi e ora Renzi si sente un po’ gabbato. Stravincere un’elezione non significa aver fatto strike su tutti i fronti. Oltre che l’abilità propagandistica, serve la capacità di governare, trovare punti di intesa, operare per il bene comune e non solo per quello della propria parte. Meglio per Renzi, e per il Paese, se il premier lo impara in fretta.