Dopo il monologo di Silvio Berlusconi alla riunione dei gruppi parlamentari, un discorso «tranchant» che ha soppiantato quello che doveva essere un «ampio dibattito chiarificatore», è il momento del silenzio in Forza Italia. Tacciono generali e colonnelli, leader e peones. Il verbo di Silvio è caduto come una mannaia. «Se non vi sta bene così, potete accomodarvi da Alfano», ha sibilato sprezzante l’ex Cavaliere all’ala crescente dei frondisti. Gente che non capisce perché dovrebbe votare con il sorriso stampato in faccia – per esempio – l’abolizione del Senato elettivo, che equivale a un suicidio politico. In cambio di cosa? E poi: perché immolarsi sull’altare delle riforme di Renzi abdicando a qualsiasi iniziativa politica in cui sia riconoscibile il marchio degli azzurri?

Insomma, vale ancora la pena sacrificarsi per Berlusconi? È questa la domanda che sovrasta il grande caos che regna in Forza Italia. L’ex premier ha già una condanna sul groppone e domani arriverà il verdetto di appello sul caso Ruby. È vero che perfino Il Fatto quotidiano ha riconosciuto che la condanna in primo grado (7 anni) è esagerata. Ma la questione è politica. Anche se fosse ridimensionata nella misura, un’altra sentenza sfavorevole all’ex Cav segnerebbe la sua fine definitiva come leader politico, forse accompagnata dalla perdita degli attuali benefici nello sconto della pena, cioè fine dei servizi sociali e inizio degli arresti domiciliari. Il che equivale al «liberi tutti». Ecco spiegato il silenzio di ieri. Che parli, il quasi 78enne Berlusconi. Minacci pure gli ex fedelissimi, perché loro sono pronti a prendere una strada diversa.

Uscire allo scoperto in questo momento, alla vigilia di una sentenza così cruciale, verrebbe interpretato come un tradimento palese. Non a caso lo schiaffo di Berlusconi è suonato più forte quando ha accostato i dissidenti ad Alfano. Ma dopo una sentenza che potrebbe azzerare ogni cosa, l’addio a Berlusconi avrebbe tutto un altro sapore. Per questo, al momento, la pattuglia di dissidenti si muove per vie istituzionali, non di partito, inondando il Parlamento di emendamenti ai testi sulle riforme.

Forza Italia non è più un partito, sembra una corte del basso impero romano, nella forma e nell’apparenza fedele all’imperatore ma in realtà assorbita da intrighi, lotte interne, corse a eliminazione, congiure di palazzo. È una questione di riforme istituzionali, ma anche di gestione interna del movimento azzurro. Chi pensa che io sia tagliato fuori dai giochi farà i conti con me, ha minacciato il capo avvertendo i dissidenti che non avranno vita facile con le loro tonnellate di emendamenti. Ma il vero obiettivo dei frondisti non sono le riforme (ci pensano già le minoranze Pd a minare le fondamenta del castello di Renzi), quanto la leadership del partito azzurro e l’attuale gestione. I «vecchi» forzisti/pidiellini, combattenti di tante battaglie, sono stati soppiantati dal «cerchio magico» composto da Francesca Pascale, Mariarosaria Rossi e Giovanni Toti. Sono loro ad avere l’accesso diretto al Caro Leader, a consigliarlo e a regolarne le scelte.

È una situazione per molti versi analoga a quella che precedette la caduta di un altro protagonista degli anni berlusconiani, cioè Umberto Bossi. Il Senatur malato ma non vinto, circondato da figure come il tesoriere Belsito, il figlio Renzo «trota», la «badante» Rosi Mauro, il concittadino Reguzzoni e altri protagonisti di un «bestiario» (oggi polverizzato) il quale ha isolato Bossi dal resto del partito. È finita che la magistratura ha frantumato il «cerchio magico» padano e, indirettamente, favorito i vari Maroni, Tosi, Salvini, Zaia. Anche in Forza Italia abbiamo oggi un leader al tramonto, un «cerchio magico» convinto di agire nel suo interesse, magistrati con il coltello tra i denti e una generazione di politici che non intende darsi per vinta sacrificandosi per il capo non del proprio partito, ma del Pd.