Smessa la tuta da sciatore, Matteo Renzi ha indossato i panni più aulici del vate. Alla quarta votazione, ha fatto sapere il premier, avremo il nuovo presidente della Repubblica senza ripetere i disastri del 2013. Nelle prime tre votazioni, quando è richiesta la maggioranza qualificata dei grandi elettori, il nome «buono» resterà coperto. Poi, con un quorum più abbordabile, il successore di Giorgio Napolitano avrà un nome e un volto.



Renzi lancia queste previsioni al suo solito, con sicumera. Che significa? In primo luogo, è un’ammissione, a denti stretti, di debolezza: non si ripeteranno i casi di Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi, eletti a larghissima maggioranza alla prima votazione, pilotati da leader discussi ma indubbiamente abili come Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Mettere d’accordo 670 persone al primo scrutinio è una missione impossibile per Renzi. Ma non ci saranno — dice — altri casi Marini, entrato in aula presidente e uscito bastonato. Niente falò di candidature.



Il premier ripiega dunque sulla maggioranza semplice. E su un nome da tenere coperto fino al momento del pronunciamento dell’aula. Un nome che dovrà riflettere gli accordi raggiunti con gli altri partiti e con la minoranza Pd. La quale è quella che scalpita più rumorosamente, soprattutto dopo il grave scivolone del governo sulla delega fiscale «salva-Silvio». L’indebolimento di Renzi ha ridato fiato a Pierluigi Bersani e ai suoi. E Romano Prodi è ritornato alla ribalta.

Evocare il Professore è stata un’uscita improvvida di Bersani o un guanto di sfida lanciato a ragion veduta? È sicuramente un modo con cui la minoranza democratica ricorda a Renzi che lo sfregio del 2013, con il venir meno di 101 voti, è una ferita ancora aperta. L’ha fatto capire Bersani, l’hanno detto apertamente Rosi Bindi e (al sussidiario) Massimo Mucchetti. Il messaggio a Renzi è chiaro: prima che con Silvio Berlusconi, il nome per il Quirinale devi concordarlo con noi, altrimenti sarai ripagato con la stessa moneta che hai usato contro di noi due anni fa. E per sanare quella ferita si riparte dallo stesso nome sfregiato, cioè quello del fondatore dell’Ulivo e primo presidente del Pd.



Prodi continua a ripetere che la sua candidatura al Colle non esiste, ma ha fatto sapere che oggi sarà alla manifestazione di Parigi a fianco dei principali leader europei, Renzi compreso. Qualcuno si è affrettato a concludere: prove generali di futura convivenza. Stranamente, l’uscita di Bersani dell’altro giorno non ha bruciato Prodi.

Che cosa farebbe Renzi alla quarta votazione se la candidatura del Professore gli fosse proposta dalla minoranza del suo partito più Sel e i fuoriusciti del M5S se non addirittura i parlamentari forzisti fedeli a Fitto, cioè un raggruppamento che assieme al resto del Pd fosse in grado di nominare il nuovo presidente? 

Spaccherebbe definitivamente il partito (dopo aver affondato due anni fa Marini e lo stesso Prodi) per salvaguardare le riforme del Nazareno? Ma vale anche l’opposto: se il nome per il Colle proposto da Renzi fosse condiviso da un ampio arco di consensi, i bersaniani dovrebbero riallinearsi e incassare l’ennesima sconfitta.

La «scommessa» renziana sulla quarta votazione serve dunque di monito anche a Forza Italia. Il caos sulla riforma del fisco ha dimostrato che il patto del Nazareno è sottoposto a gravissime tensioni e che l’accordo con Berlusconi dev’essere di alto profilo, inattaccabile, perché l’alternativa è già pronta: un ex premier, ex presidente della Commissione Ue che non piace né a Berlusconi né a Renzi, ma davanti al quale il premier farebbe buon viso a cattiva sorte perché, pur non andandogli troppo a genio, la sua elezione gli consentirebbe di mettere a tacere la dissidenza interna e uscire dalle sabbie mobili.