Sergio Cofferati che straccia la tessera del Pd dopo le primarie in Liguria potrebbe diventare la classica crepa che allargandosi mette a rischio l’intera diga. È una vicenda che non coglie del tutto di sorpresa: chi conosce Cofferati e ha seguito gli sviluppi del post-primarie l’aveva messa nel conto, ma l’accelerazione delle ultime ore era imprevedibile e lascia intendere che la frana potrebbe diventare una valanga.

Molti elementi s’incrociano in queste dimissioni. C’è lo strappo definitivo tra il Pd di Renzi e l’ala operaista della sinistra che non si riconosce più in un partito il cui leader (nonché presidente del Consiglio) durante la riunione della direzione nazionale si mette a scambiare tweet con il rapper J-Ax. C’è l’orgoglio dell’ex segretario nazionale della Cgil che non ha mai condiviso un percorso pacifico con il partito erede del Pci: dopo la grande manifestazione del 2002 contro il governo Berlusconi che voleva cambiare l’articolo 18, sembrava che davanti al Cinese si spalancasse un’autostrada verso la leadership del partito, invece egli finì prima a Bologna e poi a Bruxelles, e il suo tentativo intermedio di conquistare la segreteria regionale ligure finì malamente.

C’è poi il crollo di un’illusione recente: che le primarie fossero la garanzia di rinnovamento dei partiti. Da Prodi in giù fino alle ultime sfide in stile X-factor vinte prima da Bersani e poi da Renzi, le primarie dovevano rappresentare la svolta partecipativa di un partito in cui era venuto meno il modello delle sezioni, della presenza pervasiva sul territorio, della militanza massiccia. Ormai non c’è voto che non sia occasione di polemica sulle liste, le regole, gli elettori, i voti comprati e venduti.

In Liguria le primarie hanno mostrato tutti i limiti di questo strumento partecipativo che appartiene alla tradizione politica americana ma non alla nostra. Cofferati — e con lui la vecchia guardia del Pd — non ha tollerato che potesse votare chiunque, anche «i fascisti». «Il voto di un democratico non può valere come quello di un fascista», ha detto ieri il Cinese annunciando l’addio.

E infine c’è il momento in cui è partito questo schiaffo a Renzi, cioè alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente, con la minoranza Pd (assieme a Sel) inginocchiata davanti al nuovo vate della sinistra europea, il greco Tsipras dato per favorito alle elezioni greche. Un segnale brutto per Renzi, che vede vacillare le speranze di tenere compatto il partito. Lo spettro dei franchi tiratori nel voto per il Colle si allunga su Palazzo Chigi, sul Quirinale e sullo stesso Nazareno.

Il rischio di una scissione del Pd si fa infatti più concreto. Cofferati ha rotto gli indugi dei vari Civati, Fassina e Cuperlo, eternamente tentennanti, e si proietta così verso la guida non solo della regione Liguria (non dimentichiamo che le primarie per il sindaco di Genova furono vinte da un outsider vicino alla sinistra radicale come Doria) ma di un nuovo ipotetico schieramento nazionale simil-Tsipras che raccolga i fermenti anti-europeisti e anti-renziani della sinistra.

Il caos in cui sta cadendo il Pd è anche la riprova dell’insipienza di Renzi, incapace di ascoltare chi non la pensa come lui. È uno che tratta gli imprevisti e i contestatori come mosche fastidiose, con sufficienza e superficialità, senza nemmeno il fiuto di intuire che certe faccende vanno affrontate, non liquidate in un modo purchessia. Renzi ha sottovalutato l’incidente sul decreto fiscale «salva-Silvio» e ora ha toppato clamorosamente sulle primarie, uno strumento la cui integrità avrebbe dovuto tutelare nell’interesse del suo stesso futuro, non semplicemente della candidata vincente in Liguria (renziana).

Un voto criticato dal collegio dei garanti del partito per il sospetto di brogli e finito all’attenzione della procura di Savona. Ma i fedelissimi del segretario l’hanno messa sul personale: «Facile dimettersi dopo una sconfitta», ha sibilato la vicesegretaria Deborah Serracchiani. Come se l’abbandono di Cofferati nascesse da un risentimento personale e non da un coacervo di problemi politici che i vertici del Pd non si decidono a sciogliere.