Matteo Renzi si sente una specie di Capitan Futuro. A Palazzo Vecchio sognava Palazzo Chigi. Ci è arrivato passando per il Largo del Nazareno. Oggi ha raggiunto il suo obiettivo? Macché: se potesse decollerebbe verso il Quirinale, il colle più alto di Roma. Ma Matteo non ha l’età (e forse gli manca anche altro). È così si mette a giocherellare come se fosse un presidentino. Non solo approva decreti a raffica anche privi della necessità e urgenza imposti dalla Costituzione (come quello sulle banche popolari, così drammaticamente indispensabile da richiedere un anno e mezzo per essere realizzato); non solo approfitta dell’accondiscendenza del «supplente» Grasso, che altri venti giorni da capo dello Stato difficilmente gli capiteranno di nuovo.

Ora il premier si è ritagliato su misura anche le consultazioni. Di solito è il presidente della Repubblica a farle quando deve scegliere il capo del Governo; ora le parti sono invertite: le organizza il presidente del Consiglio per individuare il nuovo inquilino del Colle. È l’ultimo dei paradossi di questa repubblica dei nominati, dove un atto così importante come le votazioni per il capo dello Stato assomigliano sempre più a un intrigo di corte.

Martedì dunque si svolgeranno le consultazioni esattamente sul modello di quelle presidenziali: il cerimoniale di Renzi convoca le delegazioni dei partiti nel suo ufficio, fissa la scaletta dei ricevimenti, stabilisce gli orari. Si parte dai centristi dei Popolari per l’Italia e si finisce con Sel. Grillo ha già fatto sapere che non si presenterà. Chissà se è compreso il rituale delle immancabili dichiarazioni ai giornalisti davanti alle telecamere. Ma è il Quirinale, Palazzo Chigi o il Nazareno? Non è ben chiaro.

Non è chiaro nemmeno se da questo giro di orizzonti uscirà davvero un nome condiviso o se Renzi estrarrà dal cilindro un outsider a lui legato, mettendo la minoranza Pd e Forza Italia davanti all’alternativa: o lui o il Paese precipiterà nel caos. Perché, come ha scandito a Davos, «il futuro è oggi», il Paese non può essere frenato dalle divisioni. Questo «lui» sembrerebbe rispondere al profilo del costituzionalista Ugo De Siervo, fiorentino (manco a dirlo), padre di uno strettissimo amico di Renzi, Luigi, piazzato in un incarico manageriale in Rai. Secondo le voci che corrono, sarebbe la carta «coperta» del premier.

Se Renzi e Berlusconi avessero il controllo dei propri partiti, si sarebbero già messi d’accordo su Giuliano Amato o, in subordine, su Anna Finocchiaro. Ma le rispettive minoranze interne vogliono avere voce in capitolo per non lasciare che siano i leader da soli a decidere. Difficile che bersaniani e civatiani tirino la corda fino al punto di spezzarla, anche se la tensione sta salendo, come dimostrano gli insulti scritti sul profilo Facebook di Pippo Civati. 

Vendola dice che anche D’Alema, dopo Cofferati, potrebbe lasciare il Pd. Tutta legna buttata sul fuoco delle polemiche per alzare fumo sulla strada di Renzi e rendergli il più arduo possibile pilotare la candidatura al Quirinale.

Al momento Renzi è preoccupato di far sbollire le rabbie democratiche dopo il voto sull’Italicum. Una parte della sua diplomazia è al lavoro per recuperare lo strappo e convincere i dissidenti che per il Quirinale non si ripeterà lo schema che, per salvare l’asse con Forza Italia, ha provocato crepe tra i senatori democratici. Parallelamente, a Firenze confabulano in gran segreto i luogotenenti di Renzi e Berlusconi, cioè Lotti e Verdini, armati di matita e pallottoliere. Anche il Cavaliere ha il suo daffare ad ammansire Raffaele Fitto, ma il rischio di rottura nel centrodestra è più basso, visti i precedenti poco fortunati (in termini elettorali) di Futuro e Libertà, Nuovo Centrodestra e Fratelli d’Italia. Berlusconi per ora si gode la ritrovata centralità nello scacchiere della politica italiana e attende nuove da Renzi. È lui a dover sbrogliare la matassa più intricata.