Addio Pd, addio Forza Italia. Le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma segnano la fine dei due partiti protagonisti degli ultimi 10 anni di vita politica. Matteo Renzi e Silvio Berlusconi stanno seppellendo ciascuno la formazione di cui si trovano alla guida. Senza grandi rimpianti, ma con conseguenze di un certo peso sulla vita politica italiana.



Il Partito democratico è ormai ridotto a un puro nome. Eppure nella capitale era il primo partito e nel comune di Roma era il primo gruppo consiliare; Marino aveva partecipato alle primarie contro Renzi, e a quelle per la candidatura a sindaco aveva sconfitto David Sassoli e addirittura Paolo Gentiloni, ex braccio destro di Francesco Rutelli ora diventato ministro degli Esteri. Marino era tra gli uomini più in vista del Pd, che però l’ha scaricato con ignominia come un corpo estraneo: forse Renzi crede che gli italiani si dimenticheranno di questo fratricidio al momento del voto. A gestire la vicenda, il premier-segretario non ha mandato un funzionario di partito ma il presidente, Matteo Orfini. Doveva essere lui a sbrogliare la matassa del Campidoglio, è invece riuscito a ingarbugliarla ulteriormente.



La crisi di Roma si innesta su una situazione ai limiti della rottura: la minoranza interna del Pd non ha deposto le armi nemmeno dopo la sconfitta sulle riforme. In molte regioni il Pd è ingovernabile. Cuperlo e D’Attorre parlano di «partito snaturato», «partito del capo», privo di dibattito interno, costretto a subire gli accordi con Verdini e lo scaricamento di Marino senza avere un’alternativa valida. Il nome per Roma, infatti, ancora non c’è.

E manca pure a Milano, ormai consacrata capitale morale d’Italia, lodata dal commissario anticorruzione Cantone, esaltata dal successo di Expo e vivaio del nuovo commissario della capitale, cioè il prefetto del capoluogo lombardo. Tra tutti questi fenomeni democratici, l’unico vero papabile per il dopo-Pisapia è il commissario Expo. Ma Giuseppe Sala («Ovviamente ci ragiono ma voglio prendere una decisione con calma» ha detto ieri) per ora si tiene stretta la fresca nomina nel cda di Cassa depositi e prestiti, il volano renziano per l’economia, e attende garanzie prima di sbilanciarsi su Milano: garanzie che il dopo-Expo non venga travolto dalle polemiche sull’utilizzo delle aree e da nuove inchieste.



Ma anche il principale avversario — almeno teoricamente — del Pd conosce una lenta agonia. Forza Italia è in crisi da quando è nata sulle ceneri del Pdl. Ora però appare completamente priva di scopo. Toccherà ad Alfio Marchini prendere i voti azzurri a Roma: dopo Brugnaro a Venezia, un altro outsider che non ha nulla a che fare con il partito. 

Berlusconi sostiene che unirà le anime del centrodestra, mentre Marchini tre anni fa era pronto a candidarsi con il centrosinistra e oggi, nel pieno della crisi del Campidoglio, ha dato una bella mano a Renzi. Ha fatto dimettere i propri consiglieri contribuendo a dare la spallata decisiva a Marino, mentre un centrodestra serio avrebbe costretto il Pd ad andare in aula e a votare contro il proprio sindaco.

Il colmo però è il caos milanese, dove dalle parti di Berlusconi vorticano una quantità di nomi: Lupi, Passera, Salvini, Del Debbio, Urbano Cairo, Demetrio Albertini. Ora il Cav dice di avere un asso nella manica che metterebbe d’accordo anche la Lega, prossima alla svolta moderata. Si tratterebbe di Paolo Scaroni, ex manager Eni ed Enel, un veneziano a Milano con qualche problemuccio giudiziario. Partito azzurro naturalmente assente, ormai ridotto a un fantasma senza nessuna voce in capitolo.