A pensare male si fa peccato, a maggior ragione all’inizio dell’avvento. Però è un fatto che Matteo Renzi, dedicandosi interamente a esternare sulle emergenze internazionali, tende a glissare sui guai intestini: la situazione economica, l’Ue che storce il naso sulla legge di stabilità, il partito che traballa, le grane irrisolte delle candidature alle amministrative. Riempire i discorsi — e di conseguenza i resoconti dei giornali — con l’impegno italiano in Medio Oriente, gli avvertimenti agli alleati, l’elogio della «risposta italiana vincente», gli inviti a non chiudersi in casa, a non cedere alle «risposte muscolari»: ecco la nuova politica renziana.
Tutte frasi a effetto che producono titoli da prima pagina e lasciano che la nebbia avvolga la gestione delle altre questioni. Tanto più che nelle parole del presidente del Consiglio si cercano invano prese di posizione nette, perché la linea è quella della prudenza più prudente, della cautela più cauta. Il premier non ha nessuna intenzione di schierare truppe o mezzi operativi, di «mettere gli scarponi a terra» come s’usa dire. Una scelta giusta quanto dettata non da una strategia, ma dal suo opposto: appunto l’assenza di una strategia.
Le cortine fumogene sono indubbiamente un cavallo di battaglia del repertorio mediatico renziano. Alzare polveroni per sottrarre all’opinione pubblica altri temi. La salute del partito, ad esempio: i sondaggi concordano nel dire che, se si votasse domani, il Pd sarebbe il primo partito ma poco sopra il 30 per cento, lontano anni luce dall’exploit delle europee 2014 e soprattutto dalle percentuali che garantirebbero la vittoria al primo turno, e rischierebbe grossissimo se andasse al ballottaggio con i grillini. Vogliamo parlarne? Meglio di no.
E le situazioni locali, dove i cacicchi di periferia ostacolano in ogni modo le strategie del segretario-premier in vista delle elezioni amministrative? Pochi hanno messo il naso su quello che succede nel Pd bolognese, in mano ai cuperliani che vogliono decidere in totale autonomia il nome del prossimo sindaco. L’attuale, Virginio Merola, è inviso al partito, alle coop (ha bloccato vari progetti di espansione urbanistica) e agli industriali; l’incubo grillino incombe; il centrodestra non è pervenuto. Ma guai a mettere becco nella federazione bolognese.
A Milano sta esplodendo il conflitto tra il sindaco uscente, Giuliano Pisapia, e il candidato in pectore del Pd, l’ex commissario Expo Giuseppe Sala. A Torino non si sa come affrontare l’insofferenza dell’ex ministro Piero Fassino che sta chiudendo un quinquennio che non vuole ripetere. A Napoli è clamoroso lo scontro con Antonio Bassolino, che intende ripresentarsi a ogni costo, saltando regole vecchie e nuove, per dare una lezione al quarantenne di Firenze. E poi c’è il caso più intricato, quello della capitale, una crisi tutta interna al Pd che ha fatto dimettere uno dei suoi, Ignazio Marino, e non sa dove sbattere la testa per scegliere un nome che possa almeno giocarsela.
L’enfasi renziana che tenta di costruire un’immagine da statista su misura per il premier lascia in secondo piano questi nodi irrisolti del Pd. Importanti scelte che danno la misura delle intenzioni di un leader vengono declassate a intrighi di corridoio, scaramucce di corte. Ma purtroppo per Palazzo Chigi i guai non sono finiti. La legge di stabilità, infatti, non è stata promossa dall’Ue ma congelata: vedremo a primavera, hanno sentenziato i contabili di Bruxelles preoccupati da una manovra espansiva priva di tagli e coperta sostanzialmente da un maggior deficit.
Anche in questo caso, meglio parlare d’altro. E per essere più sicuro di raggiungere l’obiettivo, il premier sta chiudendo un’operazione magistrale, gli va riconosciuto: l’arrivo a Repubblica di Mario Calabresi, uno dei direttori che più hanno scommesso sul Rottamatore, e la normalizzazione renziana delle principali testate giornalistiche fornirà un’impareggiabile cassa di risonanza per le imprese del presidente del Consiglio.