Alla vigilia del sofferto riaggancio tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi a Bologna, i fuoriusciti del Pd fondano ufficialmente la nuova «cosa rossa». Per un centrodestra che tenta di rimettere assieme i cocci, ecco la sinistra dura e pura che rompe in via definitiva i rapporti con Matteo Renzi. Coincidenza di date del tutto casuale, ma il risultato è un doppio segnale di allarme per il premier-segretario del Pd.

La neonata Sinistra italiana nasce fragile, tenuta assieme dalla stessa logica antagonista che ha dominato per vent’anni il Pds-Ds-Pd: prima era l’antiberlusconismo, oggi è l’antirenzismo. Il narcisismo di molti leader della sinistra fotografato dall’immortale «continuiamo così, facciamoci del male» di Nanni Moretti ha partorito l’ennesima spaccatura. I massimalisti avranno il loro specchio nel quale guardarsi mentre la base, gli elettori, probabilmente seguiranno solo in minima parte questo nuovo soggetto. Che appare figlio delle ambizioni frustrate di un gruppo di politici nostalgici, vecchi e snob con il loro arancione, più che da un movimento popolare di insofferenza reale verso il segretario del Pd.

Questa tuttavia è soltanto la punta più acuta del malessere serpeggiante nel centrosinistra. Perché nel Partito democratico non sono rimasti soltanto i fedelissimi di Renzi, ma anche una pattuglia sempre più numerosa di scontenti. A partire da Pierluigi Bersani e la sua “Ditta”, per proseguire con delusi eccellenti come Graziano Delrio o Sergio Chiamparino, governatori insofferenti come Rossi (Toscana) o Emiliano (Puglia). Molti di loro non avrebbero comunque lasciato il Pd, decisi a lottare dall’interno. Il ragionamento di Bersani è semplice: lui di Renzi non ne può più da tempo, ma mettersi a fare l’opposizione al governo da sinistra significa condannarsi all’irrilevanza e, verosimilmente, consegnare il Paese a Beppe Grillo.

La prospettiva di questa minoranza è quella di costruire nel Pd l’alternativa a Renzi. Hanno due argomenti efficaci. Il primo è ostacolare il progressivo spostamento del premier al centro, con l’apertura a Verdini e la rincorsa ai cavalli di battaglia berlusconiani: lavoro, tasse, sforamento dei parametri Ue, e ora anche il ponte sullo Stretto mentre da un lato Reggio Calabria ancora non si raggiunge da Napoli interamente in autostrada e Messina resta senz’acqua. Il secondo è il solipsismo di Renzi: nulla esiste al di fuori del «giglio magico». Il premier governa con il cerchio strettissimo dei fiorentini, e ora si espone pure al rischio delle frecciate velenose alla Corradino Mineo, che colpiscono Maria Elena Boschi proprio mentre il ministro cerca di accreditarsi con un tour in alcune capitali europee.

Ma l’embrione del partito della nazione che si sta realizzando con Alfano e Verdini è sideralmente lontano dall’inclusività dell’Ulivo di Prodi: quello era un tentativo, velleitario ma con un minimo di idealità, di raccogliere i cocci della sinistra e costruire un’identità nuova; questo è un accrocchio tattico che frustra lo stesso Pd, come dimostrano le resistenze delle regioni ai tagli governativi. Le proteste più forti sono infatti venute dai governatori di centrosinistra, che poi hanno dovuto abbassare la testa secondo la legge di partito.

Renzi, oltre al programma, sta ripetendo anche gli errori di Berlusconi: uno dei più gravi è stato quello di alzare le spalle davanti agli addii dei vari Casini, Fini, Alfano e agli strappi di Salvini. Una grande formazione politica deve essere in grado di tenere assieme anime diverse. Sottovalutare i guai interni, lasciare che incancreniscano fino a troncare i rapporti è uno degli elementi che ha portato il centrodestra allo spappolamento attuale. Matteo Renzi però tirerà dritto. Ha dalla sua la mancanza di alternative reali all’attuale governo e un oggettivo indebolimento della Ditta bersaniana, la quale da ieri ha meno alleati nel fare opposizione interna al segretario-premier.