Matteo Renzi ce l’aveva messa tutta perché la sesta Leopolda sancisse l’apoteosi. Inviti a sorpresa, «question time» dei giovani a tappeto, sfilate di ministri, scenografie degne dei congressi del Psi craxiano. Ma le cose non sono andate come aveva previsto il premier-segretario. Troppi silenzi di Renzi, troppe questioni lasciate irrisolte, troppi imbarazzi davanti a nodi che i rottamatori non vogliono sciogliere. O forse, semplicemente, non sanno come farlo.
Nel discorso di chiusura di ieri, l’unico appuntamento alla vecchia stazione di Firenze che abbia acceso un po’ di entusiasmo nei presenti che non fosse un atto dovuto, il capo del governo ha rivendicato i successi dell’esecutivo. L’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Il Jobs Act. Le riforme costituzionali che saranno sancite con il referendum confermativo nell’ottobre 2016. Ha difeso la linea dell’esecutivo sui migranti: «Posso perdere un punto nei sondaggi ma non la faccia». Si è attribuito il merito di avere rovesciato la politica gerontocratica avendo lanciato «una nuova classe dirigente» che «fa errori» ma «ha coraggio».
Il Partito della nazione, così inviso alla minoranza interna del Pd, è diventato il Partito della ragione. Quello che «se si votasse oggi vinceremmo al primo turno con una percentuale maggiore che alle europee», cioè oltre il 40 per cento. Alle smargiassate di Renzi dopo un po’ ci si abitua, ma questa sembra davvero enorme. D’altra parte, in guerra (e quindi anche in campagna elettorale) e in amore tutto è lecito, compreso spararle grosse.
E l’obiettivo di Renzi alla Leopolda è stato proprio aprire la campagna elettorale per le amministrative della prossima primavera. Roma, Milano, Torino, Napoli. Sfide pesantissime e altrettanto rischiose. Per questo il premier ha nuovamente estratto dal cilindro presidenziale il suo repertorio classico: le mancette elettorali. Naturalmente egli ha negato (con un altro pezzo classico, la excusatio non petita); resta il fatto che ieri pomeriggio il capo del governo ha annunciato nuove modifiche alla legge di stabilità con emendamenti di spesa senza copertura, un’estensione della manovra in deficit che si allarga dal 2,2 al 2,4.
Il pacchetto allarga le recentissime promesse di investire in sicurezza e cultura con un miliardo di euro per ciascun capitolo. Le mancette riguardano 80 euro per le forze di polizia, un numero cui Renzi è affezionato, ma questa somma è un bonus mensile per il 2016, che entra solo temporaneamente nelle buste paga e non incide sulla pensione, e un bonus di 1000 euro per gli studenti di conservatorio che vogliono cambiare strumento musicale. Più tromboni per tutti. E sai che sviolinate.
«Il bello» ha concluso Renzi «deve ancora venire». Non si è capito se si tratti dell’ennesima promessa o di una minaccia. Fatto sta che tutte le questioni più scottanti del momento sono rimaste dietro le quinte della Leopolda: le candidature di primavera, l’economia che non riparte, i rapporti di forza in Parlamento, le banche.
Renzi ha detto, a proposito dei salvataggi dei quattro istituti, che gli «fa schifo chi strumentalizza i morti». Ma chi era stato, prima del suicidio di Civitavecchia, a sacrificare gli obbligazionisti sostenendo che non erano piccoli risparmiatori, e dunque trattandoli di fatto come avidi speculatori amanti del rischio?
Stavolta la macchina propagandistica di Renzi non è riuscita a mascherare le difficoltà in cui naviga il premier, e gli imbarazzi sul ministro Maria Elena Boschi ne sono il segno più evidente. Il partito della nazione, o della ragione, non decolla. E alla vigilia di un voto così decisivo come quello delle prossime amministrative il rottamatore non può nemmeno cercare di risuscitare il patto del Nazareno. Forza Italia, Lega e Cinque stelle sembrano compatti nel volere sfiduciare il ministro Boschi. Altro che 40 per cento: gli inseguitori stanno guadagnando terreno.