Matteo Renzi nell’Arena di Massimo Giletti. Mezz’ora di intervista in diretta faccia a faccia, senza altri interlocutori se non il padrone di casa del salotto della chiacchiera televisiva domenicale. Il premier c’era già stato nel maggio scorso, un paio di settimane prima delle elezioni regionali, ottenendo uno spot sui rimborsi ai pensionati, e in precedenza, due anni fa, prima di candidarsi alla segreteria del Pd: era ancora sindaco di Firenze. Quella volta almeno erano presenti altri giornalisti a porre domande un po’ fastidiose per il rottamatore. Adesso non più.



Quando è in difficoltà, Renzi decide di occupare la domenica pomeriggio dei telespettatori. La mossa esprime tutta la preoccupazione del premier, che nelle ultime settimane si è isolato sempre di più. Ieri è stata una giornata drammatica, segnata da un retroscena della Stampa secondo cui il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, sarebbe arrivato a un passo dalle dimissioni frenate soltanto dall’intervento del capo dello Stato. Ricostruzione smentita dal Quirinale come «fantasiosa» ma avvalorata dai mormorii romani. Il governatore non ha digerito di essere stato scavalcato dal magistrato Raffaele Cantone negli arbitrati tra le quattro banche appena salvate e gli obbligazionisti truffati. Visco stesso ha dovuto reagire con una forte controffensiva mediatica, al mattino con un’intervistona a Repubblica e la sera in tv al programma di Fabio Fazio.



Il governatore non poteva accettare le chiose di Renzi che ha inteso affidarsi a Cantone perché «soggetto terzo, autorevole, in prima linea contro ogni tipo di ingiustizia». Come se Bankitalia fosse l’opposto: di parte, poco credibile, complice. Anche il numero 1 della Consob, Giuseppe Vegas, è in fibrillazione. Renzi ha messo nel mirino anche la commissione di controllo sull’attività di borsa. Anche lui, come Visco, posto sotto tutela di Cantone, il talismano renziano, e in attesa di conferire con il Colle. E dal Quirinale partono rassicurazioni che suonano come una presa di distanza da Palazzo Chigi.



Bankitalia, Consob, Quirinale. Tra il governo e le massime autorità politiche, monetarie e finanziarie, insomma, è sceso un grande gelo. Non c’è maggiore cordialità con la Bce di Mario Draghi, che non vede di buon occhio una legge di stabilità costruita a colpi di bonus e priva di coperture perché fatta in deficit. Non parliamo dei rapporti con Bruxelles. Nei giorni scorsi è girata la voce che Renzi vorrebbe sostituire il rappresentante della diplomazia italiana presso l’Unione europea, ritenuto troppo accomodante con le potenti lobby continentali. Legami sempre più sfilacciati anche con Federica Mogherini, Lady Pesc fortissimamente voluta proprio da Renzi ma che — a detta di Palazzo Chigi — è ininfluente per gli interessi dell’esecutivo italiano.

L’isolamento renziano è quasi tangibile nella tenzone con Angela Merkel, la cancelliera tedesca che a suo tempo l’aveva giurata a Silvio Berlusconi. Chi tocca la Merkel non fa una bella fine: il premier dovrebbe saperlo. Invece ha scelto l’attacco aperto, frontale, senza alleati a guardargli le spalle. Una mossa della disperazione, appunto. Un anno fa in questi giorni Renzi portava a casa il Jobs Act e preparava l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale; oggi invece arranca nel gestire il giorno per giorno, senza una strategia di maggiore respiro e con una serie di comportamenti che fanno trasparire tutto il dilettantismo del suo «cerchio magico».

Una settimana fa alla Leopolda Renzi garantiva che se si votasse oggi il suo Pd trionferebbe al primo turno. Ma i sondaggi più recenti lo smentiscono perché il Pd è collocato appena sopra il 30 per cento e addirittura uscirebbe sconfitto da un ballottaggio con i grillini, che incasserebbero i voti della destra leghista. Gli accordi sulle nomine alla Consulta vanno a rafforzare loro, non il Pd, che infatti il giorno dopo si è trovato a fronteggiare una mozione di sfiducia al ministro Boschi. I 5 Stelle fanno paura a tutti.