L’ultimo terreno di scontro che si è aperto è il dossier Ilva. Con l’Unione europea — ma sarebbe meglio dire: con Angela Merkel — i fronti caldi erano già numerosi: Russia, manovra in deficit, aiuti di stato alle banche e relative operazioni di pronto soccorso. Ora si aggiunge l’acciaieria di Taranto, per la quale è in arrivo l’ennesima procedura d’infrazione europea. Matteo Renzi adotterà la tattica già vista più volte, ribaltando ogni responsabilità su Bruxelles (e Berlino) matrigna.
In realtà i dossier europei sono tutti fronti interni che il premier non riesce a gestire. Alcuni, come l’Ilva, li ha ereditati e affrontati male; altri, come la legge di stabilità a rischio di bocciatura perché l’aumento del deficit non era stato concordato con i controllori Ue e gli spericolati salvataggi bancari a scapito dei risparmiatori, sono scelte spavalde dell’esecutivo.
Il governo è in difficoltà anche per altri aspetti. I rapporti con gli industriali sono freddi: anche ieri, giorno festivo, Unimpresa ha ricordato che fino al 2018 la pressione fiscale resterà stabile al 43% con un aumento di 54 miliardi tra il 2017 e il 2019, che compenserà il minore gettito di misure approvate prima di Natale come i tagli all’Imu. Aumentano le tensioni anche nei rapporti con gli alleati. Da tempo si vocifera di un rimpasto di governo a metà gennaio per chiudere alcune falle aperte da tempo (mancano il ministro degli Affari regionali, il viceministro degli Esteri e due sottosegretari, dello Sviluppo economico e dei Beni culturali) e rispecchiare i nuovi assetti nella maggioranza. Bisogna infatti ridimensionare la minoranza Pd, soddisfare Scelta civica, non scontentare gli alfaniani e soprattutto attribuire i primi riconoscimenti alle truppe fresche di Denis Verdini arrivate a sostegno da poco.
In questa partita si intrecciano anche gli accordi per rinnovare i presidenti delle commissioni al Senato, appuntamento di metà legislatura che serve da «tagliando» per la maggioranza che sostiene l’esecutivo. A Palazzo Madama i numeri sono risicatissimi ma rinviare le decisioni non è più possibile. Il divario tra pretese e disponibilità è ampio, mentre è limitata l’abilità del premier nel gestire queste situazioni dove la battutina, l’arroganza, la sfrontatezza abituali del premier sono controproducenti.
C’è poi una vera cartina di tornasole della palude renziana, ed è il caso Milano. Nel capoluogo lombardo le elezioni di primavera non sono anticipate come a Roma; anzi da tempo si sa che Giuliano Pisapia non si sarebbe ricandidato. Eppure Renzi il rottamatore sembra un vecchio democristiano ai tempi d’oro di Forlani o Andreotti, quando regnavano l’attendismo e il fatalismo. Dossier scottanti? Lasciamoli raffreddare per evitare ustioni alle mani. I groppi più intricati non vengono affrontati di petto, da decisionista quale il premier pretende di essere, ma ignorati, lasciati decantare e sbollire. Ma in questo modo i nodi si avviluppano, non si sciolgono.
Dunque, Pisapia è in grande attività per pilotare la scelta verso un nome che gli sia gradito. L’ex commissario Expo, Giuseppe Sala, candidato in pectore del centrosinistra, non riesce a sfondare l’immagine di burocrate incolore, che fu scelto come city manager da Letizia Moratti mentre oggi si proclama uomo incrollabilmente di sinistra e attende le primarie come un’investitura divina: essendo privo di capacità proprie di attrazione, Sala spera di trarre lì la propria legittimazione. E tuttavia Renzi tace, non avalla la corsa di Sala, appare sempre in cerca di un nome nuovo in una ondivaghezza che indebolisce tutti nella galassia democratica. Strafottente e troppo sicuro di sé, stavolta il premier-segretario non se la può cavare piazzando qualcuno dello stretto giro toscano. Deve mediare, cercare, approfondire i dossier, trovare consenso non clientelare, vagliare programmi. Insomma, deve fare politica. Che per lui è fatica improba.