Dopo la maratona notturna, corsa dai parlamentari in uno scenario che ricordava più il Vietnam che New York, si fa la conta delle forze residue. Matteo Renzi fa partire battute sprezzanti verso le opposizioni, vecchie e nuove. Parole tipiche del premier bullo, atteggiamento pieno di supponenza. È come quando i giocatori al tavolo del poker si stuzzicano per capire carte e bluff. Renzi ha vinto una mano, quella del Quirinale. Al giro successivo, quello delle riforme, non ha avuto la stessa buona sorte ma ha forzato moltissimo e ha portato a casa un altro round.
Ora, come spesso accade anche nella politica, la vera forza su cui conta Renzi non è la propria ma quella formata dalla somma delle debolezze degli avversari. Maggioranza e opposizione si rinfacciano reciprocamente incoerenze e forzature. La minoranza sbatte in faccia al premier le sue dichiarazioni secondo le quali le riforme si fanno insieme non per una questione di galateo istituzionale (o almeno non solo) ma perché regole condivise consolidano il sistema. Dal cerchio renziano invece fanno notare le contraddizioni di Forza Italia che fino all’altro giorno condividevano il nuovo assetto istituzionale e adesso gridano all’attentato contro la democrazia. C’è chi invita l’opposizione a non ritirarsi sull’Aventino e chi continua a rimproverare la strategia del Pd renziano che procede come uno schiacciasassi.
Il segretario-premier agita lo spettro delle elezioni anticipate. Sventola i sondaggi che lo danno in risalita. Se saltano le riforme la legislatura non ha più senso, dice Renzi. Ma i berlusconiani sanno che Renzi avrebbe molti più vantaggi ad arrivare al 2018, governando ancora senza aver vinto le elezioni e potendosi presentare in campagna elettorale con qualche risultato. Al momento, infatti, il carniere del premier è vuoto. Contiene soltanto promesse non mantenute e qualche legge-delega (come il Jobs Act) che attende attuazione. In più, andare a votare con il Consultellum è un rischio per tutti.
Il vero asso nella manica di Renzi, quello che gli consente di affermare con insolenza che «non ci fermeremo» nemmeno davanti all’aula semivuota, non è la minaccia di votare in anticipo, ma le divisioni interne dei suoi oppositori. La minoranza del Pd non riesce a capitalizzare il voto sul Quirinale che sembrava averla rimessa in gioco. Ieri ancora dichiarazioni contraddittorie. Se Francesco Boccia sostiene che la minoranza Pd non voterà le riforme in assenza dell’opposizione, un altro esponente degli anti-renziani (Alfredo D’Attorre) assicura che non è loro intenzione rompere con il governo: «Vogliamo riportare le opposizioni in aula, non uscire anche noi». E Pier Luigi Bersani invita a «non accendere altre micce». Il caos regna sempre sovrano.
Lo stesso vale per Forza Italia, dove prende corpo l’ala di Verdini pronta a garantire un «soccorso azzurro» al governo pur di non andare a casa anzitempo. Berlusconi sente la pressione di chi gli ricorda che le sue aziende non possono permettersi di avere un governo ostile. Anche la Lega cammina sul filo del rasoio: il braccio di ferro tra Matteo Salvini e Flavio Tosi in Veneto potrebbe portare a una svolta clamorosa, cioè la perdita della regione a favore di Alessandra Moretti, fedelissima di Renzi. Un paradosso imprevedibile: il partito accreditato di avere una crescente presa sull’elettorato potrebbe perdere la guida di una regione-simbolo come il Veneto. I guai dell’opposizione sono manna per il governo. Ed ecco perché Renzi insiste a fare lo sbruffone.