Il ministro Maurizio Lupi che si dimette davanti alla «terza Camera», cioè il salotto tv di Porta a porta, è l’ultima stranezza (per ora) di questa inchiesta piena di anomalie, in cui mancano per esempio sia le tangenti — Ettore Incalza ha sempre fatturato tutto — sia l’accusa di associazione per delinquere. È un “sistema”, come la procura di Firenze ha battezzato il fascicolo che fa tremare il governo Renzi, nel quale ognuno si muoveva per conto suo. E soprattutto manca l’avviso di garanzia per colui che agli occhi della pubblica opinione ormai appare come il protagonista numero 1, cioè Lupi stesso. D’altra parte questa è un’inchiesta mediatica ed è giusto che le dimissioni vengano date non in Parlamento ma in uno studio televisivo.
Dopo il Rolex per il figlio, nel conteggio dei favori era finito anche un volo aereo per la moglie del ministro. Le dimissioni tutelano in primo luogo la famiglia di Lupi. Ma era l’intero governo da mettere in sicurezza. Le mozioni di sfiducia in calendario per martedì sono una mina pericolosissima. Lo stillicidio dei verbali fatti uscire un po’ alla volta ha logorato Lupi in modo inesorabile. Ben pochi gli si sono schierati a fianco, nemmeno il suo partito. Nessuno l’ha attaccato direttamente, né però ne ha preso le difese. Anche Alfano si è limitato a frasi generiche senza mobilitare il Nuovo centrodestra per alzare le barricate.
Nell’incontro a tre di ieri svoltosi prima che il premier partisse silenziosamente per Bruxelles, Renzi ha fatto capire a Lupi che non l’avrebbe messo con le spalle al muro ma nemmeno si sarebbe speso per lui. Ha fatto intendere a Lupi che se avesse resistito più a lungo avrebbe messo in pericolo tutti, e forse lo stesso Renzi avrebbe dato la spallata. Alfano ha registrato la freddezza del premier mascherata da una premura soltanto apparente: «Forse da semplice parlamentare potrai difenderti meglio» ha detto Renzi spingendo il ministro fuori dall’esecutivo.
Dopo l’annuncio tv delle dimissioni, il Pd ha trovato un’improvvisa unità nell’apprezzare il gesto. Per tenere buono il Ncd, dove nessuna voce si è levata per fare scudo al proprio ministro, è pronto per Gaetano Quagliariello il portafoglio degli Affari regionali. La coalizione non va indebolita, e una poltroncina di scorta la puntella. Lupi è stato sacrificato sull’altare della governabilità, egli stesso ha spiegato che «il governo esce rafforzato da questa vicenda».
Renzi ha confermato il suo doppiopesismo: tollera Poletti fotografato con Buzzi, 4 fra viceministri e sottosegretari indagati, un candidato governatore regionale in cerca di un provvedimento ad personam per evitargli la ghigliottina della legge Severino; lo stesso Renzi ha il padre indagato per bancarotta: nulla davanti alle intercettazioni penalmente irrilevanti che hanno travolto Lupi.
Doppiopesismo e spregiudicatezza: Renzi si libera così di un ministro che gli stava cordialmente antipatico, che gli si era opposto quando il premier voleva spacchettare le competenze di Infrastrutture (da portare a Palazzo Chigi) e Trasporti, così come in occasione delle elezioni presidenziali.
Probabile che lo spacchettamento possa andare in porto adesso se, come pare, Renzi assumerà l’interim del dicastero almeno fino al taglio del nastro di Expo. Successivamente si fanno i nomi di Raffaele Cantone, magistrato che sovrintende l’autorità di controllo degli appalti, e di Nicola Gratteri, magistrato antimafia di Reggio Calabria, al quale ancora brucia la mancata nomina a guardasigilli. In alternativa Renzi avrebbe sondato un terzo magistrato, anche se ex, cioè Michele Emiliano. Per i lavori pubblici si passa dai super tecnici alle toghe. Il capo dei magistrati l’altro giorno aveva attaccato molto pesantemente il governo («premi ai delinquenti, buffetti ai giudici»): eccolo accontentato.