Il percorso delle riforme costituzionali riparte dal Senato, dove la maggioranza di Matteo Renzi traballa di più, soprattutto dopo la fine del patto del Nazareno. Il quale non dà segnali di ricomposizione: ieri Silvio Berlusconi ha ripetuto che Forza Italia non voterà il disegno di legge costituzionale, che pure aveva avuto finora un via libera sostanziale dagli azzurri. Renzi avanza a colpi di maggioranza e sfida le opposizioni: sarà il popolo a sancire il nuovo modello istituzionale con un referendum, ha detto ieri. Come dire: non sarà una riforma votata con pochi voti di scarto ma una trasformazione «benedetta» da un largo consenso degli italiani. Peccato che il referendum non sia una graziosa concessione del principe di Firenze, ma un preciso obbligo costituzionale in mancanza di un vasto appoggio parlamentare.
Renzi deve dare l’idea che la sua spinta propulsiva non si arresta. Ma il quadro politico è sempre più frammentato, soprattutto in casa sua. Bersaniani e civatiani hanno preso atto che l’avvicinamento del segretario è durato lo stretto necessario per fare eleggere Sergio Mattarella. Molti parlamentari della minoranza interna oggi non risponderanno alla convocazione del premier per discutere sulle prossime mosse del Pd alle Camere. Renzi conta invece sull’implosione delle altre forze, perché le debolezze altrui sono cemento per lui.
Oggi è il giorno della scissione leghista a opera di Flavio Tosi, che tenta una disperata manovra centrista contro la svolta a destra di Matteo Salvini. Berlusconi soffre la pressione dei «ricostruttori» di Raffaele Fitto, una quarantina di parlamentari che non vogliono saperne né di lasciare il partito né di allinearsi. Problemi anche tra i grillini, decimati dalle scomuniche del duo Grillo-Casaleggio. Perde qualche pezzo perfino il Nuovo Centrodestra dopo i travagli del post-Mattarella, e scricchiola la leadership di Giorgia Meloni in Fratelli d’Italia, giudicata troppo allineata sulle posizioni di Salvini e dunque poco identificabile. Per non parlare di Scelta civica, ormai quasi del tutto fagocitata dal Pd di Renzi.
Se dunque il Pd piange, nessuno degli altri partiti ride. Anzi, i frammenti dispersi e vaganti in direzioni varie potrebbero essere calamitati dal polo attrattivo renziano: è il fascino del potere. Tanto più che — ormai è chiaro — le elezioni non sono dietro l’angolo perché un governo stabile in Italia è la condizione per godere delle manovre monetarie sul debito che la Bce sta per attuare. La minoranza Pd è avvertita: il gruppo misto ormai è il quarto «partito» in Parlamento, è un bacino da cui attingere, e molti suoi componenti non aspettano che di cedere alle lusinghe renziane andando in soccorso di un governo dove le chiacchiere reggono assai più dei numeri.
Renzi è sempre più spregiudicato nel braccio di ferro con gli oppositori interni: ormai tra essi non c’è più alcun tentativo di dialogo, ma un’interminabile partita a poker per vedere le carte (o il bluff) dell’altro. Ora il fronte si allargherà con il ddl di riforma della scuola, già bersagliato da molte critiche per la solita sequela di annunci inconcludenti, e la riforma della Rai, che andrà a regime (se vi andrà) fra non meno di tre anni e mezzo.
L’inizio della campagna elettorale per le regionali non aiuta i riavvicinamenti; al contrario favorisce la radicalizzazione delle posizioni. Il sistema di voto (niente ballottaggi, chi prende un solo voto in più degli avversari prende governatore e maggioranza) potrebbe premiare anche partiti non fortissimi, e al contempo espone candidati ben quotati al rischio di soccombere: vedi il caso di Luca Zaia in Veneto, dove un’eventuale lista Tosi non ha la minima possibilità di vincere ma può danneggiare irreparabilmente il cammino del Carroccio.