«Stop alla dittatura Bce», ha urlato la femminista che ha tentato di interrompere la conferenza stampa di Mario Draghi. Ed è come se avessero urlato «Stop alla dittatura di Renzi» i deputati che ieri sera hanno abbandonato l’assemblea del gruppo del Pd alla Camera prima di votare l’ordine del giorno sulla riforma elettorale. Su 310 componenti del gruppo, 120 se ne sono andati (il 39 per cento) e gli altri 190 hanno approvato all’unanimità la linea Renzi.



Un atto clamoroso, che porta il Partito democratico al limite della rottura. Il percorso avviato con un ampio sostegno, che arrivava a coinvolgere anche Forza Italia, ora sta perdendo pezzi dello stesso Pd, l’unico rimasto a sostenere l’Italicum assieme al Ncd. Il sì definitivo che la Camera dovrebbe dare il 27 aprile è diventato molto a rischio.



L’assemblea di ieri sera è stata una resa dei conti. Il premier-segretario era deciso ad andare avanti a ogni costo sul testo approvato lo scorso gennaio al Senato (anche da Forza Italia), senza modifiche che comporterebbero tempi allungati. La minoranza era determinata a tenere duro fino a giocare la carta più drammatica e disperata, le dimissioni del capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza. L’abbandono doveva servire a bloccare le discussione, a spostarla dall’Italicum verso le divisioni interne al partito fino a toccare nuovamente la legge elettorale.

Ma Renzi ha tirato dritto. Per lui «il governo è legato all’Italicum nel bene e nel male». Se cade l’uno, trascina con sé l’altro. Perciò «basta toni da Armageddon». In precedenza aveva ironizzato sul gioco del Monopoli, quando si torna continuamente indietro senza passare dal via. Uno schiacciasassi incurante del problema apertosi nel gruppo alla Camera, forse addirittura contento che la minoranza di Area riformista avesse finalmente liberato una poltrona che il segretario potrà riempire con uno dei suoi «yes-man». Renzi poteva sospendere la discussione, mentre ha preferito far votare dall’assemblea la prosecuzione rinviando ad altra occasione il dibattito sulle dimissioni di Speranza.



La tensione è diventata altissima nell’organismo dirigente Pd, l’atmosfera infuocata. Un gruppo comprendente tra gli altri Civati, Fassina, Bindi, D’Attorre e Cuperlo se n’è andato. Civati senza modifiche voterà contro l’Italicum in aula: «Non si può andare avanti così»; e pare siano almeno una settantina i deputati democratici pronti a seguirlo nello strappo. Intanto i tweet dei renziani paragonavano il gesto di Speranza agli “ultimi colpi di Tafazzi”. 

Parallelamente tre partiti di opposizione (Sel, Forza Italia e Lega Nord) si rivolgevano separatamente al capo dello Stato denunciando un «golpe» se l’Italicum passerà con la fiducia e chiedendo (parole di Scotto, Sel) «un libero dibattito parlamentare senza forzature e scorciatoie dal sapore autoritario».

Renzi ha lasciato un solo spiraglio: avrebbe accettato modifiche alla riforma costituzionale in Senato in cambio del sì all’Italicum. L’unico a cogliere l’appiglio per una mediazione è stato Bersani, pure durissimo nel suo intervento al pari di Epifani, chiedendo «modifiche sostanziali e non di facciata» alla riforma della Costituzione. Ma ormai la rottura è consumata, per alcuni potrebbe rappresentare addirittura un preannuncio di scissione. Si vedrà venerdì. Alcuni deputati Pd chiederanno di essere sostituiti in commissione per rispetto verso la maggioranza del partito senza però rinunciare alle proprie idee. Altri però potrebbero ingaggiare una battaglia a suon di emendamenti ostruzionistici, magari spalleggiati dagli uomini di Brunetta o Salvini. Il rischio Vietnam per l’Italicum è elevatissimo, e anche per il Pd.

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