Sorridente e giulivo, evitando accuratamente di pronunciarsi su argomenti che non fossero l’amore omosessuale, Ignazio Marino ha aperto ieri il corteo del Gay Pride a Roma. Camicia bianca e fascia tricolore al petto, il sindaco della capitale ha tentato di allontanare i fantasmi che da giorni lo assillano. L’incubo dell’inchiesta su Mafia capitale e quello della gestione del Giubileo.

Marino traballa e Matteo Renzi pure. Un singolare destino accomuna oggi questi due personaggi che un paio d’anni fa erano il simbolo del rinnovamento, della pulizia, della riscossa democratica. Renzi conquistava in rapida sequenza prima il Pd e poi Palazzo Chigi sull’onda della rottamazione; Ignazio Marino vinceva improbabili primarie in cui faceva fuori, al contempo, i cinque anni di Gianni Alemanno sindaco e le incrostazioni di un partito, il suo, che restava ancorato ai ricordi lasciati da Rutelli e Veltroni.

Oggi di Marino e Renzi si può dire ciò che sentenziava un antico brocardo: «Simul stabunt vel simul cadent», ovvero insieme staranno o insieme cadranno. Dopo aver perso la Liguria e aver vinto in Campania non troppo onorevolmente, il premier-segretario non può permettersi di farsi sfilare anche la guida della capitale alla vigilia del Giubileo sotto la pressione di indagini giudiziarie così compromettenti. Da parte sua, il sindaco sa che Renzi ha bisogno di lui e batte i pugni sul tavolo.

La sfiducia di Renzi verso Marino è palpabile quando gli offre solidarietà d’ufficio per Mafia capitale mentre fa sapere che per il Giubileo la sua soluzione è un commissariamento affidato al prefetto Gabrielli, ex capo della Protezione civile. Anche nel 2000 la gestione del grande evento fu commissariale, ma il governo di allora (D’Alema) lo consegnò al primo cittadino Francesco Rutelli. Stavolta toccherebbe al prefetto, con palese sconfessione del sindaco in carica.

Marino ha protestato vivacemente con Palazzo Chigi per lo smacco ventilato. Il premier ha dovuto fare buon viso a cattiva sorte e trasformare il commissariamento (come ha detto Matteo Orfini) in coordinamento. Marino viene affiancato nella gestione come un visconte dimezzato nel classico compromesso all’italiana. Anche se il sindaco è azzoppato dalle indagini (nelle quali egli non è comunque personalmente coinvolto), il premier non può permettersi di farlo cadere.

È una tattica non priva di logica, ma il successo non è garantito. Le carte degli inquirenti dicono che Marino, così come il Pd e la fondazione di Renzi, hanno ricevuto sovvenzioni dai boss di Mafia capitale in campagna elettorale. Le intercettazioni dipingono un sindaco non corrotto ma ingenuo, uno al quale si poteva farla sotto il naso mentre egli scorrazza in bicicletta tra le rovine imperiali (e pure repubblicane).

Al momento la sua posizione non è paragonabile a quella di personaggi che fanno tremare il governo, come per esempio il parlamentare Azzollini del Ncd. Ma l’inchiesta Mafia capitale continua a scoperchiare nuovi scandali e Renzi sa di non potersi legare mani e piedi al destino di Marino. Oggi dunque va così: collaborazione e vigilanza, una soluzione condivisa sul modello Expo. Peraltro il governo non ha ancora sbloccato i fondi promessi per il Giubileo. Tuttavia l’operato del sindaco è sotto i riflettori. Martedì arriverà sul tavolo del prefetto Gabrielli la relazione degli ispettori nominati a dicembre dal suo predecessore Giuseppe Pecoraro: un dossier che potrebbe raggiungere le mille pagine. Da quel momento il prefetto avrà 45 giorni (cioè fino a fine luglio) per proporre al Viminale, cioè al ministro Alfano, un eventuale scioglimento dell’amministrazione capitolina.

Da Rosy Bindi a Susanna Camusso a Pierluigi Bersani — esponenti della sinistra non particolarmente teneri con Renzi — è già cominciato un tam tam che ritiene il commissariamento una soluzione inadeguata per il Campidoglio. Ma è davvero così scontato che Marino superi indenne questa prova, e con lui anche Renzi?