Se si votasse domani a Roma, avremmo un nostro candidato. È una promessa (per Silvio Berlusconi, forse, una minaccia) di Matteo Salvini. Il leader della Lega nord è irrefrenabile. Ieri ha parlato di tutto: al Corriere della Sera ha garantito che il Carroccio è «un partito di governo, un movimento di liberazione» passato in due anni dal 4 al 16 per cento. Poi Salvini ha sentenziato che ha «pronta una squadra di professori» se dovesse vincere le elezioni; che «la Boldrini è da ricoverare»; che «l’Ue rischia di saltare se non cambia»; che «la Lega deve aprirsi al mondo» senza restare confinata in Padania; che, di questo passo, nel 2016 la Lega avrà il 26 per cento; e infine, che «se si voterà a Roma avremo un nostro candidato». Non è mancato un saluto al milione di persone radunate in Piazza San Giovanni a Roma per difendere la famiglia naturale perché «difende il proprio futuro».
Tanto presenzialismo mediatico si spiega in larga parte con l’«effetto annuncio» per la manifestazione di Pontida di questa mattina. Un raduno profondamente cambiato dai tempi di Umberto Bossi, quando trionfavano i simboli celtici, le utopie separatiste e i propositi federalisti. Oggi la Lega è schiacciata sul nazionalismo della francese Marine Le Pen. Il nemico non è più Roma ladrona ma l’immigrato, il clandestino, l’invasore, il diverso.
È una strategia che rende. I sondaggi confermano il trend delle elezioni regionali, con la Lega in ascesa a scapito dei tentennamenti di Forza Italia, che ancora si dibatte tra anime contrapposte di chi si schiera con il balbettio riformista di Matteo Renzi e chi si schiererebbe all’opposizione senza se e senza ma. A differenza di Forza Italia, ancora paralizzata da un risultato elettorale asfittico, la Lega è più movimentista.
Addirittura il quotidiano Il Tempo, vicino al centrodestra e sensibile alla «pancia» di quell’elettorato, ipotizza un nuovo polo di stampo lepenista se Lega Nord e Movimento 5 Stelle dovessero convergere. La prospettiva non sembra facilmente percorribile, ma ha una sua credibilità: il crescente malcontento anti-Europa unito alla debolezza di Renzi nella gestione dei flussi migratori sta coagulando larghi strati di elettorato.
Il 40 per cento delle elezioni europee toccato nel 2014 è ormai un sogno lontano per il Pd. E se le elezioni dovessero giocarsi sulla discriminante «pro o contro Bruxelles», il Pd rischierebbe addirittura di non arrivare al ballottaggio previsto dall’Italicum. Perché, almeno a quanto segnalano oggi le intenzioni di voto, le forze predominanti (benché non coordinate in alleanze organiche) sono quelle anti-europee, cioè il centrodestra moderato da un lato e il combinato lepenista Salvini-Grillo dall’altro.
Il leader leghista e quello a cinque stelle smentiscono una convergenza ideale. Ognuno per la sua strada, soprattutto i grillini che hanno sempre proclamato di non volere allearsi con nessuno. Resta il fatto che qualcosa si muove nel fronte contrapposto a Renzi, come dimostra il congresso fondativo del Movimento dei Cattolici democratici lanciato da Gianfranco Rotondi a fine mese a Roma.
Il movimentismo leghista preoccupa Berlusconi, che spera ancora di poter federare il vecchio centrodestra. Ma di fronte non ha più un Bossi incline al compromesso pur di portare a casa un pezzo di Padania. Oggi Salvini punta con decisione al bottino pieno: il governo del Paese. Martedì il Cavaliere e il Capitano (così i fedelissimi apostrofano il segretario del Carroccio) si vedranno per discutere il futuro del centrodestra. E si comincia da Milano prima che da Roma, cioè dal nome di chi correrà come sindaco sotto la Madonnina.
Berlusconi sembra orientato a dare strada libera a Salvini, un accordo che potrebbe ripetersi per le elezioni amministrative nella capitale in caso di voto anticipato. Per ora non si parla di elezioni politiche: a Berlusconi serve tempo per riorganizzarsi e le prove locali, come dimostrato poche settimane fa, sono un terreno di prova sufficiente per impaurire Renzi e costringere Salvini ad accantonare sogni di autosufficienza.