Dall’inizio della legislatura in corso, il Parlamento ha registrato 270 passaggi di gruppo: 137 al Senato e 133 alla Camera. I parlamentari girovaghi sono 210; il fatto che il loro numero sia inferiore a quello dei cambi significa che in 60 hanno svestito la casacca originale più di una volta. Un tempo lo si chiamava trasformismo, opportunismo, oppure semplicemente la prova provata del dettato costituzionale che esclude il «vincolo di mandato». Il parlamentare cioè ha totale e insindacabile libertà di movimento nello svolgere la sua attività.



Dopo la sentenza di ieri che ha condannato Silvio Berlusconi a tre anni, nel vocabolario della politica italiana è invece entrata ufficialmente la compravendita dei parlamentari come «operazione pianificata volta a sovvertire l’ordine democratico». Sarebbe interessante verificare quanti voltagabbana, negli anni, sono stati ricompensati con incarichi di governo o sottogoverno, nomine in autorità o board pubblici, riconferme, e via elencando.



Ma non discutiamo la sentenza di Napoli, che ha un altissimo valore simbolico ma nessuna conseguenza pratica: infatti il 6 novembre prossimo l’imputazione cadrà in prescrizione e non ci sarà nemmeno il tempo per celebrare l’eventuale appello. Il Cav ne uscirà dunque assolto ma sfregiato per l’ennesima volta, non più sul piano dei comportamenti personali con Ruby e le «olgettine» ma di quelli politici.

Il verdetto darà soprattutto adito a ricostruzioni azzardate di quel 2008, già in circolazione. Per esempio, Romano Prodi ha detto che, senza i maneggi berlusconiani a favore di Sergio De Gregorio & C., lui sarebbe ancora a Palazzo Chigi. Molto difficile. Il Professore bolognese guidava una maggioranza che al Senato contava 158 voti contro i 156 del centrodestra, ed era composta da 12 partiti rappresentati a Palazzo Madama, la gran parte minuscoli, ognuno dei quali determinante per la tenuta dell’esecutivo. Come Renzi oggi, Prodi avanzava a colpi di fiducia e ogni votazione era un terno al lotto.



Ma soprattutto il secondo governo Prodi è caduto per le conseguenze di un’altra iniziativa della magistratura, quell’inchiesta «Why not» messa in piedi dal pm de Magistris, oggi sindaco di Napoli e condannato in primo grado per abuso d’ufficio (ma non colpito dalla legge Severino) avendo acquisito in violazione alla legge i tabulati telefonici di alcuni parlamentari. Nel gennaio 2008 il guardasigilli Clemente Mastella si dimise in quanto vittima delle toghe: il ministro era indagato e la moglie era finita ai domiciliari. Il suo partito, l’Udeur, lasciò la maggioranza e pochi giorni dopo votò la sfiducia. Prodi cadde così. Il ministro uscì indenne dall’inchiesta, così come un altro indagato eccellente, lo stesso premier, e il principale accusato, l’imprenditore calabrese Tonino Saladino.

Se Matteo Renzi sperava nel «soccorso azzurro» per condurre in porto le riforme istituzionali (in testa il Senato non elettivo), ora non potrà più aspirarvi. Un nuovo Nazareno è improponibile. Eppure mai come ora il premier ne avrebbe bisogno per depotenziare definitivamente Palazzo Madama che anche a lui pone così tanti problemi di tenuta parlamentare.