Enrico IV rimase tre giorni e tre notti a Canossa in attesa di essere ricevuto (e perdonato) dal papa Gregorio VII. Un atto di sottomissione diventato proverbiale. La Canossa di Matteo Renzi si chiama Gomorra. È una qualsiasi località della Campania, la regione di Roberto Saviano. Lo scrittore ha pubblicato una lettera-appello su Repubblica in cui chiede al premier di darsi una mossa: «Lei ha il dovere di intervenire e prima ancora di ammettere che nulla è stato fatto». E Renzi ha reagito con l’ennesima promessa, quella di una sorta di «piano Marshall» per il Mezzogiorno d’Italia.

Una delle sue «renzate», in cui mescola fondi europei già assegnati e risorse tutte da trovare. Il ministro Delrio gli ha tenuto bordone parlando della creazione di «una grande officina per il Sud». Matteo Orfini, il presidente del Partito democratico che sta tentando di disinnescare una bomba a orologeria chiamata comune di Roma, ha accettato di convocare una direzione del Pd il 7 agosto prossimo dedicata interamente alla questione meridionale.

Insomma, una riscossa renziana. Che però, per essere avviata, ha avuto bisogno della strigliata di Saviano. È stata l’ultima di una lunga serie di rimproveri durissimi rivolti al premier che hanno portato il Pd sull’orlo di una rivolta interna. L’imbarco dell’Ala di Verdini. Gli errori sul caso Azzollini. L’improvvisa accelerazione sulla Rai da riformare mentre si usa ancora la vituperata legge Gasparri per nominare vertici nuovi e più docili. Enrico Mentana, il cui TgLa7 non è mai stato ostile al premier-segretario, che gli imputa di essere «come gli altri». Dati economici da incubo: l’ultimo sulla disoccupazione giovanile è un colpo tremendo per Renzi che gioiva per gli zero virgola prodotti dal Jobs Act. Il crollo nei sondaggi. Il partito che gli sfugge di mano.

Ed ecco che Renzi viene a Canossa, o meglio a Gomorra. La mobilitazione per il Sud è un segnale lanciato ai suoi critici interni, alla minoranza Pd in ebollizione perenne. È l’ammissione di errori e l’apertura di una possibilità di dialogo, dove ancora non si capisce chi — tra lui e l’opposizione interna — sia il figliol prodigo.

Non sono le critiche e la loro portata ad avere indotto l’ex rottamatore a invertire la rotta. Dietro la decisione della controffensiva c’è un calcolo preciso, una faccenda di pallottoliere. Sono i numeri del Senato a preoccuparlo. Le assenze di giovedì, che hanno mandato sotto la maggioranza sul canone Rai, e la spaccatura sull’arresto di Azzollini rappresentano campanelli di allarme che Renzi poteva ignorare marciando verso l’accordo con gli ultimi fuoriusciti da Forza Italia, oppure prendere in considerazione.

Ha scelto la seconda strada. L’aveva già fatto altre volte, in momenti di altissima tensione, come alla vigilia dell’elezione di Sergio Mattarella: quando capì che la minoranza interna diventava troppo pericolosa, Renzi accettò il nome proposto da Bersani rompendo di fatto il patto del Nazareno. Ma ora il Pd balla davvero sul Titanic, come testimoniano le parole di Franco Monaco, deputato molto vicino a Prodi e alla Bindi: «Penso che si debba lealmente prendere atto di una più generale differenza di visione politica che si manifesta un po’ su tutto e dunque non più componibile dentro un medesimo partito. Merita riflettere se non convenga separarsi da buoni amici. Magari, se possibile, per allearsi domani».

Anche Peppino Caldarola ieri ammetteva su ilsussidiario.net che «il Pd è fallito». Renzi al centro con Alfano e Verdini, gli ex amici a sinistra: questo lo schema ipotizzato. Il grande piano per il Sud, la «venuta a Gomorra» di Renzi, appare un modo per allontanare questa ipotesi. Fosse anche solo per portare a casa la riforma Rai, e poi ricominciare con il fuoco amico.