C’è un senatore che sta seguendo con particolare attenzione il braccio di ferro tra Matteo Renzi e la minoranza democratica sulla riforma della Camera alta. È un senatore speciale, democratico, ex Pci, formalmente non schierato con l’uno o l’altro dei contendenti, che però ha legato gli ultimi anni della sua attività (e la vita stessa della politica italiana) proprio alle riforme istituzionali. E non può vederle andare in fumo. Questo signore si chiama Giorgio Napolitano, presidente emerito ma senatore a vita in servizio permanente effettivo.
A differenza di quasi tutti i suoi predecessori, il precedente inquilino del Quirinale non ha scelto la discrezione e il silenzio; non ha lasciato libero il campo al suo successore. Che invece ha sposato una linea di comportamento diametralmente opposta: di Sergio Mattarella vanno interpretate non le parole dette ma quelle taciute; egli ha scelto il ruolo di arbitro, non di allenatore in campo; addirittura ha osato introdurre al Colle una spending review finora rimasta soprattutto di facciata, e ha tagliato stipendi, auto blu, pensioni, alloggi di servizio ai dipendenti. Per lui parlano i gesti.
Negli ultimi due mesi, un periodo che molti politici (a maggior ragione se emeriti) dedicano a vacanze di tutto riposo, Napolitano si è molto esposto a difesa del progetto su cui ha investito la sua autorevolezza da capo dello stato. È intervenuto in Commissione affari costituzionali del Senato, ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera, ha replicato a Eugenio Scalfari su Repubblica. Tre interventi di grande peso politico. Un po’ come se Ratzinger avesse commentato l’enciclica di Bergoglio.
Non basta. Il 1° settembre Napolitano è tornato al Quirinale per un colloquio di oltre un’ora con Mattarella: un appuntamento fissato in luglio ma che non è stato una semplice visita di cortesia. Anche negli ultimissimi giorni ha fatto parlare di sé quando lunedì a Bologna ha commemorato il compagno Renato Zangheri (ricordando a Renzi che il Pd porta in sé l’eredità del Pci) e poi a Venezia ha visitato la Mostra del cinema accompagnato dalla moglie Clio. Un attivismo notevole, non troppo diverso dallo stile dei nove anni al Colle, che si contrappone alla riservatezza di Mattarella. Sul quale Napolitano sta compiendo un «pressing» vellutato quanto deciso per eliminare gli ostacoli dall’accidentato percorso parlamentare del nuovo Senato.
Sono giorni nevralgici per la riforma. Pietro Grasso, presidente dell’assemblea di Palazzo Madama, deve indicare procedure che sono forma e al tempo stesso sostanza. Una parola dal Quirinale, anche a mezza voce, soprattutto detta da un costituzionalista come Mattarella, potrebbe aiutare la gravosa decisione e dare una mano al governo. Napolitano preme — nei palazzi del potere romano la cosa è data per certa — ma al momento l’arbitro vuole restare tale. Erano girate voci di contatti tra la prima e la seconda carica dello Stato, ma sono state smentite sia dal Colle sia da Palazzo Madama.
La sfinge Mattarella resta fuori dalle contese, lascia libertà al Parlamento, resiste a chi cerca di tirarlo per la giacca, di condizionarlo, di indurlo ad attuare quella moral suasion che Napolitano — e altri prima di lui — hanno inteso come loro prerogativa principale. La legge di riforma costituzionale non rientra nella giurisdizione del capo dello Stato: ciò che le dà valore non è la sua firma, ma il voto a maggioranza qualificata del Parlamento o il referendum confermativo. I personaggi principali di questa fase sono Renzi e, in seconda battuta, Grasso. Il presidente punta su un accordo politico all’interno del Pd. Nonostante le pressioni esterne di chi auspica un suo intervento anche informale.