È una partita a poker, ma stavolta il bluff non c’è. Matteo Renzi l’ha tentato tante volte in questi lunghi mesi di trattative sulle riforme istituzionali, ha bluffato, cambiato carte, rovesciato il tavolo. Da oggi il gioco si fa duro. Con un colpo di mano al Senato, la maggioranza ha spazzato via le trappole della Commissione affari costituzionali di Palazzo Madama, ha saltato il blocco di emendamenti (500mila) ideati da Roberto Calderoli che però ha garantito di poter arrivare in aula alla spaventosa cifra di otto milioni. Da oggi la discussione viene sfilata alla Commissione (che non ha votato) ed è trasferita in aula dove Renzi ha mani più libere per costruirsi il consenso necessario.

Il blitz renziano si basa su un dato di fatto elementare. Se il governo andasse sotto sulla riforma del Senato si andrebbe a votare. Magari non subito perché Sergio Mattarella non ama le urne anticipate, ma non è nemmeno un inventore di governi tecnici come Giorgio Napolitano. Dunque, o riforme o urne. E oggi esiste un solo partito che ha interesse reale alle elezioni anticipate: il Movimento 5 Stelle. Non il Pd in preda a spasmi scissionistici, non la boccheggiante Forza Italia, non il Ncd spaccato tra i vertici “renziani” e la base, nemmeno la Lega che sa ben di non poter ambire al ballottaggio senza un accordo con gli azzurri. Anche i partiti minori, i vari fuoriusciti — da Civati a Verdini passando per Tosi e Fitto — hanno soltanto da guadagnare nel prendere tempo per organizzarsi in vista del 2018. Chi oggi parla di “forzatura inaccettabile” si guarderà bene dallo sgambettare sul serio l’esecutivo, grillini a parte.

Renzi e i suoi ne sono ben consapevoli: anche loro hanno bisogno di tempo. Da giorni gli emissari erano al lavoro per verificare se questa convergenza di interessi si sarebbe materializzata in voti nell’aula del Senato o quantomeno in astensioni strategiche, che a Palazzo Madama abbassano il quorum necessario e perciò di fatto agevolano il governo. Le ultime incertezze svaniranno davanti al blitz: il passaggio in aula ha lo scopo di chiudere la partita entro il 15 ottobre per poi aprire il capitolo della sessione di bilancio. Chi non ci sta — minoranza Pd in testa — sappia che la conseguenza è tutti a casa.

Ma Renzi è convinto di avere una buona mano di carte e che il bluff non serve. Lotti e Verdini (faceva i conti parlamentari per Berlusconi, ha trasferito la sua competenza alla corte del concittadino premier) garantiscono almeno 155 voti, forse addirittura 165. La maggioranza assoluta è 161, ma assenze mirate contribuiranno ad abbassare il tetto richiesto e a mettere in sicurezza il voto se venissero meno i consensi dell’ala più oltranzista della minoranza Pd. 

Tanto per dire, ieri mattina a Palazzo Chigi si è visto Flavio Tosi, ex leghista che controlla tre deputati e tre senatori, anzi tre senatrici. Tosi e Renzi dovevano vedersi sabato a Verona dove il premier avrebbe lanciato il tour dei cento teatri. Il capo del governo ha preferito volare a New York per il tennis. Ma è assai improbabile che il sindaco scaligero sia volato a Roma per parlare della mancata visita. Anche Verdini conta di allargare la sua pattuglia di 10 senatori “alati”. Anche per questo Pierluigi Bersani ha detto che “nessuno vuol fare cadere il governo”: è come la volpe e l’uva, in questo momento lui non ce la fa.